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Manuel Bortuzzo: l'acqua è il mio elemento

Manuel Bortuzzo: l'acqua è il mio elemento

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L'acqua è il mio elemento

In realtà quella per il nuoto non è stata sin da subito una grande passione. Ho cominciato ad andare in piscina a soli tre anni, ma aH’inizio non mi piaceva granché: in acqua non mi sentivo nel mio ambiente, mi faceva un po’ paura questa strana cosa di stare a galla, e poi c’era tutta la trafila annessa e connessa: spogliarsi, affrontare la sensazione di freddo che immancabilmente ti assale appena entri in vasca... in più quando ormai ti sei abituato, anzi magari stai anche cominciando a divertirti, è già arrivata l’ora di uscire, c’è la mamma che ti chiama da bordo vasca, e quindi di nuovo freddo, accappatoio, doccia. Certo, la piscina era riscaldata, ma il clima di Portogruaro non è che facesse venir tanta voglia di farsi una nuotata. A me in acqua piaceva giocare, punto e basta.

Sono nato in Friuli e, fino a quando avevo dodici anni, io e la mia famiglia abbiamo vissuto a Ramuscello, un paesino che in effetti è una strada con delle case ai lati. Ci abiteranno un centinaio di persone o poco più, tutti parenti e amici, per la maggior parte anziani con il cane al seguito. Non c’è nulla di particolarmente interessante: giusto una piazzetta in cui scorrazzare mentre mamma e papà prendono il caffè seduti al bar. Per fortuna, ai miei tempi, almeno ci avevano piazzato un canestro e quando ero piccolo passavo un sacco di tempo a giocare a basket. Non ci sono più tornato... chissà se è ancora lì e se gli altri bambini del paese continuano a usarlo. Attività di questo genere comunque, si intende, erano possibili solo durante la primavera e l’estate, perché in inverno faceva così freddo che ci si tappava tutti dentro casa con il camino acceso e la coperta sulle gambe. Insomma, per un ragazzo di diciott’anni sarebbe stata una specie di incubo, ma per un bambino come me era la dimensione ideale: i miei genitori non avevano nulla di cui preoccuparsi e mi lasciavano libero di esplorare e divertirmi. D’altronde la cosa più pericolosa che poteva succedere era che i maiali del vicino scappassero dal recinto.

Oppure potevi finire in un cespuglio di rose in sella a una minimoto imbizzarrita, come in effetti è successo a me.

Già, perché da piccolo in realtà io volevo fare il pilota. Le moto mi piacevano (e mi piacciono tuttora) da morire, guardavo sempre le gare di motociclismo in tv e Valentino Rossi era il mio idolo. La passione per le due ruote non l’ho mai abbandonata, ma a un certo punto ho capito che quella non sarebbe stata la mia strada. È successo abbastanza presto, per fortuna. Avevo cinque anni ed ero alla festa di compleanno di un’amica di mia sorella maggiore, Michelle: le avevano regalato una minimoto, a cui avevo subito messo gli occhi addosso, aspettando il momento opportano per andare a farci un giro. E a un certo punto l’occasione è arrivata.

Sono tutti intorno al tavolo con la torta e cantano tanti auguri a te, la festeggiata sta spegnendo le candeline. Applausi, ancora auguri, aspetta, soffia di nuovo che dobbiamo fare la foto, adesso insieme a mamma e papà, poi con i compagni di classe. Perfetto. «Non mi vede nessuno, i miei genitori sono distratti, è la mia occasione», mi dico. Corro verso la minimoto, la inforco (ero così basso che toccavo a stento con le punte dei piedi) e sgaso al massimo.

Peccato che non ho la benché minima idea di come funzioni quest’aggeggio né tantomeno del fatto che se voglio fermarmi devo frenare. E così finisco dritto per dritto nel cespuglio di rose, facendo un gran casino. Il mio proposito di passare inosservato è svanito in un lampo: si girano tutti verso di me, abbandonano il tavolo della torta e corrono a vedere che diavolo è successo. La festeggiata si mette a piangere, io pure, un po’ perché mi sono fatto male, un po’ perché ho paura di essere rimproverato da mamma e papà. Per fortuna, visto che sono graffiato dalla testa ai piedi si impietosiscono. Però per tutta la settimana prossima mi toccherà andare a letto senza cartoni.

Insomma, un primo approccio con le due ruote tutto da dimenticare.

Lo sport restava comunque una mia fissazione

All’epoca, visto che ero già più alto della media dei miei coetanei, facevo anche basket (il canestro della piazzetta di Ramuscello era perfetto per esercitarmi un po’), e mi piaceva pure. Ho provato il karaté, con tutti quegli strani movimenti che mi lasciavano un po’ perplesso, e il tennis: in quel caso si è visto subito che non ero portato, buttavo la pallina dall’altra parte del campo (nemmeno sempre) senza un pizzico di tecnica.

Insomma, quando si è trattato di scegliere quale disciplina coltivare, alla fine ho optato per il nuoto, che era quello in cui si vedeva che rendevo meglio: avevo già avuto le prime piccole soddisfazioni in vasca e quindi sia a me sia ai miei genitori è sembrata la strada giusta. Ancora non lo sapevamo, ma sarebbe diventato una specie di marchio di fabbrica, lo sport di famiglia: mia sorella Michelle è entrata in acqua da piccolissima e io subito dopo, Jennifer e Kevin anche loro al seguito, come quegli anatroccoli che si vedono negli stagni o nei laghetti al parco. Per il momento sono loro che tengono alta la bandiera dei Bortuzzo, visto che Michelle ha cominciato a lavorare e io... io devo concentrarmi sulla riabilitazione. Quattro fratelli tutti nuotatori: e dire che mia madre nuota come una tedesca che vede il mare per la prima volta, con la testa fuori e le gambe che scattano a rana... mio padre se la cava, ha preso tutti i brevetti per le immersioni, ma preferisce il mare, l’acqua dolce non fa per lui.

In ogni caso, la scelta di buttarmi in vasca si è rivelata azzeccata: ben presto infatti la mia passione per l’acqua è esplosa in tutta la sua potenza. Mi ricordo benissimo la prima volta che sono passato dal turno breve dei bambini più piccoli a quello lungo dei «grandi»: mi sono messo a giocare con la squadra con cui si allenava mia sorella e il tempo è volato senza che me ne accorgessi. È stata una specie di rivelazione: nuotare mi piaceva tantissimo, quindi tanto valeva mettersi sotto con più impegno.

E le soddisfazioni sono arrivate. C’è stato un momento in particolare in cui ho capito che la faccenda si faceva piuttosto seria ed è stato quando io e tutta la famiglia ci siamo trasferiti a Treviso, in modo che potessi allenarmi in una piscina più grande, quella di Mestre. Avevo più o meno dodici anni, ero solo un ragazzino, ma mi era ben chiaro che per i miei genitori era un sacrificio e che quindi dovevo fare del mio meglio per ripagarli. Ci sono riuscito e i loro sforzi sono stati premiati: nel 2013, infatti, quando di anni ne avevo quattordici, mi sono qualificato per i campionati italiani giovanili. Avevo fatto un ottimo tempo di qualificazione, ma non vinsi, perché avevo sottovalutato un aspetto fondamentale di qualsiasi competizione, e cioè la preparazione mentale: per fare una buona gara, infatti, non basta essere fisicamente in forma, bisogna anche essere pronti ad affrontare lo stress.

Quello era il primo campionato importante a cui partecipavo e per di più ero il favorito perché mi ero qualificato con il miglior tempo, quindi tutti davano per scontato che sarei stato io a vincere. Tutta questa ansia da prestazione invece si rivelò controproducente: ero troppo emozionato, preoccupato di dover soddisfare le aspettative degli altri, e sono andato malissimo. Così ho imparato presto che la pressione a volte aiuta, a volte schiaccia. Occorre saperla gestire, filtrare, incanalare. Oggi penso spesso a quanto ciò sia vero.

Per ottenere dei buoni risultati ho dovuto aspettare l’anno successivo. Ho cambiato squadra e metodo di allenamento e dopo un po’, quando ho iniziato ad abituarmi, sono andato meglio. E cominciata la mia «ascesa» e alla fine nel campionato giovanile del marzo 2015 ho vinto l’oro nei 1500 stile e il bronzo nei 400, arrivando a 2 centesimi dal secondo e a 4 centesimi dal primo classificato.

A chi non conosce bene la disciplina questo dettaglio probabilmente non dice nulla, invece è abbastanza significativo, perché rivela che è stata una gara molto combattuta. Come in molti sapranno, nel nuoto ci sono quattro stili (delfino, dorso, rana e stile) e per ogni stile ci sono distanze diverse che vanno percorse o in vasca corta (quella da 25 metri) o in vasca lunga (quella da 50). Le gare di stile possono essere 50,100,200,400,800 e 1500. Per delfino, rana e dorso invece ci sono solo 50,100 e 200 metri. Poi ci sono i misti (100, 200 e 400 metri) e la staffetta, che è una gara molto particolare perché si fa in quattro e il successo non dipende più soltanto da te, ma anche dai tuoi compagni di squadra. Da una parte ti senti sollevato, perché la responsabilità è condivisa, ci sono anche i tuoi amici in vasca, dall’altra però se vai male tu fai andar male anche loro: lo spirito di questo sport non è certo scaricare la colpa di un brutto risultato sugli altri, però a nessuno fa piacere esserne la causa.

Comunque, tornando al discorso delle distanze, più la gara è corta e più il tempo di distacco tra i nuotatori è minimo: parliamo di millesimi e centesimi di secondo, una roba che se non hai un cronometro di precisione nemmeno te ne accorgi; più le gare si allungano più si allungano le distanze tra i nuotatori. Le gare corte sono quindi più di potenza, praticamente un’iniezione di adrenalina pura, mentre quelle lunghe sono di allenamento alla resistenza. Per rendere l’idea, un 50 stile dura circa 22 secondi, mentre la media per i 1500 è 15 minuti.

Ecco, io nel marzo del 2015 quel chilometro e mezzo l’ho fatto in 15’27”61, un ottimo tempo per un ragazzino di quattordici anni. Già allora avevo capito che i 1500 erano la mia gara d’elezione e infatti me li ero studiati per bene: all’inizio ero rimasto nelle retrovie poi a un certo punto avevo cominciato a spingere fino a piazzarmi in testa e vincere.

Fissare l'obiettivo

L’esperienza me l’ha confermato, ma mi era evidente sin dall’inizio della mia carriera in vasca: preferisco nuotare sulle lunghe distanze che cimentarmi con gli scatti delle percorrenze brevi. Nei 1500 non ti giochi subito il tutto per tutto, puoi permetterti di sbagliare e recuperare, non conta solo lo scatto iniziale ma anche la strategia, molto più che nelle competizioni brevi, dove basta un piccolo errore in partenza, una virata non del tutto perfetta, e sei fuori dal podio. Il fatto è che anche gli errori, le false partenze, le sfortune possono essere corrette, se si ha l’occasione e la volontà di farlo. A volte ci vuole del tempo per prendere il ritmo, in vasca come nella vita: l’importante è aver sempre scolpito in testa l’obiettivo e fare il possibile per raggiungerlo.

Fino a qualche mese fa si trattava di tempi e di record, adesso le conquiste che devo cercare di ottenere sono ben altre, ma lo spirito da guerriero è lo stesso e averlo coltivato nello sport mi sta aiutando moltissimo anche oggi, a cercare di spingere oltre il limite, a considerare ogni traguardo solo un trampolino di lancio per quello successivo.

Insomma, sono un tipo che non molla facilmente e far bene mi sprona a desiderare di far meglio. Poco dopo aver vinto il primo oro, infatti, ho ottenuto anche il record italiano nei 3 chilometri. Una soddisfazione enorme, anche perché - senza false modestie - è un record ancora imbattuto.

Cavolo se me lo ricordo quel giorno. Non ero partito con intenzioni bellicose, sono un ragazzo tranquillo io, anche in piscina, e fondamentalmente nuoto perché mi piace, non perché devo per forza ottenere tempi eccezionali. Insomma, quel giorno, a bordo vasca, poco prima di entrare in acqua, ho chiesto a un mio amico qual era il record nazionale nel fondo.

«Ehi, Alex, ma tu lo sai qual è il record dei 3 chilometri?»

«Sempre il solito, Manuel! Arrivi in vasca e non sai nemmeno qual è il tempo da battere...»

«Lo sai, a me piace nuotare, non me ne frega niente di tutto il resto. Poi se vado più forte degli altri meglio così.»

«Comunque è sotto i 32’30”, vedi un po’ che riesci a fare.»

Dopodiché mi sono tuffato e ci ho dato dentro. Man mano che la gara procedeva guardavo i numeri sul tabellone e mi rendevo conto che potevo farcela, quel record era in effetti a portata di mano. Così mi sono messo a spingere ed è arrivato il successo: il record è ancora lì, 32’23”, imbattuto dal 2015.

European Youth Olympic Festival

L’oro nei 1500 stile dei campionati giovanili valeva la qualificazione all’EYOF, l’European Youth Olympic Festival, praticamente un campionato europeo strutturato come un’olimpiade. Destinazione Tbilisi, Georgia. E stata un’esperienza fantastica: era la prima volta che viaggiavo da solo e per di più in quel caso c’erano un sacco di altri ragazzi di tutte le nazionalità che praticavano diversi sport. Stavamo tutti insieme nel villaggio olimpico e venivamo trattati come delle celebrità: noi atleti italiani siamo partiti tutti insieme, sullo stesso aereo, e siamo stati scortati dalla polizia, il che ci ha fatto sentire dei grandi sportivi, degli adulti, anche un po’ importanti.

Io gareggiavo per una staffetta e due gare individuali, i 400 e i 1500 stile. I 400 stile non sono andati bene, ma l’ho capito subito che quella non era la gara per me: intanto era la prima competizione del primo giorno e l’emozione è un fattore non trascurabile, poi ho guardato le start list, mi sono fatto un esame di coscienza e mi sono detto che gli altri nuotatori erano a un livello molto più alto del mio. Non mi sono demoralizzato, però ero ben consapevole che non avrei fatto un tempo competitivo e infatti è andata così: sono arrivato quindicesimo, ma non ci sono rimasto affatto male e non mi sono perso d’animo perché ero già pronto ad affrontare la sconfitta. Poi ci ha pensato il ct della Nazionale a tirarmi su di morale, raccontandomi che Gabriele Detti, all’epoca campione del mondo dei 400 stile nonché mio futuro compagno di squadra, alla mia età aveva fatto la stessa gara e si era piazzato altrettanto male. Anche perdere aiuta, ristabilisce la realtà, ti costringe a tenere i piedi per terra, a darti obiettivi adatti a te. Certo, la sconfitta brucia, ma i veri campioni devono imparare a conoscerla per imparare a vincere.

In ogni caso, non potevo permettermi di mollare, c’erano ancora i 1500.

Il giorno della competizione non è cominciato alla grande: ero stato iscritto con un tempo molto alto, che in realtà non era il mio, e quindi mi sono ritrovato in una batteria troppo lenta per me, il che è stato un problema. Quando nuoti (ma penso valga anche nella vita in generale), se non hai punti di riferimento, se non vedi come stanno andando i tuoi diretti avversari, finisci per spingere meno, perché non hai abbastanza stimoli. E in quel caso è andata esattamente così: ho gareggiato praticamente da solo e sono arrivato primo, ho fatto il mio personale, ma non è stato comunque un tempo abbastanza basso e così mi sono piazzato quinto. Il primo e il secondo classificato sono arrivati rispettivamente primo e terzo al mondiale dell’anno successivo: se mi fossi confrontato con loro forse sarei riuscito a fare qualcosa di più. Ma non sono certo il tipo che si lamenta per un quinto posto.

E poi, nonostante tutto, potevo considerarmi soddisfatto: in fondo era la mia prima competizione internazionale, ci siamo divertiti tutti moltissimo, il clima era bello, un mio caro amico aveva vinto i 50 e i 100 rana e io ero felice per lui.

Una cosa che il nuoto mi ha insegnato è che nello sport, quello vero, non c’è invidia, ma solo emozione, entusiasmo, passione, gioia. Anche quando a vincere non sei tu.

Data di Pubblicazione: 23 marzo 2020

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