ALIMENTAZIONE

Il Miele di Manuka - Anteprima del libro di Detlef Mix

Libro sul Miele di Manuka

Un probiotico “a banda larga”.

Un probiotico “a banda larga”

Probabilmente il termine “a banda larga” richiamerà alla mente il vostro collegamento Internet e la velocità di navigazione, che con un adeguato cablaggio potrà essere piacevolmente veloce. Come "probiotici" vengono vendute bevande a base di yogurt contenenti batteri “da design” che, a sentire la pubblicità, sono in grado di dare una marcia in più al vostro sistema immunitario. Il termine ha quindi una connotazione pienamente positiva e viene usato volentieri in opposizione ad “antibiotico”. Vengono definiti “antibiotici ad ampio spettro” quei farmaci antibatterici che agiscono in modo aspecifico contro diversi agenti patogeni. Utilizzandoli andrà comunque messa in conto la perdita totale della flora batterica intestinale, compresi i batteri benefici.

In modo del tutto diverso si comporta il nostro miele di Manuka, che si rivela su un ampio fronte “favorevole alla vita”, e dunque probiotico. Infatti sostiene i processi fisiologici che danno luogo a una sana formazione delle cellule e a un sistema immunitario robusto, mentre ostacola o elimina i batteri nocivi, risana il sito dell’intervento e riduce le eccessive reazioni infiammatorie. Il suo effetto antimicrobico a banda larga si rivolge in modo mirato contro alcune specie, ma decima anche altri batteri patogeni in modo altrettanto efficiente. C’è un valido motivo se preferisco usare il termine “antimicrobico” al posto di “antibatterico”. A differenza dei normali antibiotici, il miele di Manuka agisce in modo trasversale rispetto alle diverse specie, in quanto è efficace anche contro funghi e virus. Per combattere questi ultimi è utile mescolarlo a propoli per un effetto potenziato.

Il miele inibisce i microbi

È dimostrato che il miele viene impiegato da millenni a scopi medicinali, ma è solo da circa un secolo che si è cominciato a intuirne le proprietà antimicrobiche. Anche il fatto che i batteri, i virus e i funghi siano i fattori scatenanti delle malattie infettive è noto soltanto dalla fine del XIX secolo. Nel 1847 Ignác Semmelweis descrisse la connessione fra la scarsa igiene dei medici e la febbre puerperale di cui si ammalavano e morivano molte donne dopo il parto. Semmelweis gettò le basi dell’asepsi, una prassi clinica cautelativa che oggi è diventata assolutamente scontata. Prima di entrare nella camera della paziente si lavava le mani con una soluzione di cloruro di calce. Semmelweis aveva solo un’idea vaga delle cause delle infezioni delle ferite, ma le misure da lui studiate per evitarle sono state un passo epocale nella storia della medicina. Sarebbero però trascorsi ancora alcuni decenni prima che le sue intuizioni divenissero pratiche assodate anche fra i suoi colleghi. Perfino un titano della medicina come Rudolf Virchow ancora nel 1879 si oppose alla teoria di Semmelweis, che però alla fine trovò conferma grazie al lavoro di ricercatori del calibro di Robert Koch. Per Semmelweis stesso la profilassi non sarebbe bastata: morì di setticemia (una malattia dovuta alla persistente presenza di batteri nel sangue) nel 1865.

«Vedere per credere» è un paradosso cui non sfuggono nemmeno gli scienziati più seri. Forse il fatto di credere soltanto a ciò che si può vedere è ancora più valido, riferito a loro. Già il naturalista olandese  Antoni van Leeuwenhoek, considerato il pioniere della microscopia, nel corso della sua vita (1632-1723) aveva trovato indicazioni della presenza dei microbi. Louis Pasteur riuscì solo nel 1857 a dimostrare che i processi di fermentazione erano determinati da microrganismi che si potevano eliminare con l'impiego di calore (pastorizzazione).

Oggi possiamo solo fare congetture su ciò che molti secoli fa può aver indotto i cultori della medicina, o in generale i nostri antenati, a spalmare il miele sulle ferite. Sappiamo ad esempio che nell’antico Egitto a volte si usavano misture piuttosto singolari di fango e perfino di escrementi che oggi ci farebbero quantomeno arricciare il naso, se non addirittura cadere preda del panico più totale. Qualcuno, perciò, deve aver seguito la sua curiosità intellettuale sostituendo per una volta il fango con il miele. Ed ecco che la guarigione era stata sorprendentemente rapida e senza complicazioni. Per fortuna gli scopritori dell’effetto terapeutico del miele non tennero soltanto per sé le conoscenze acquisite, e nel corso dei millenni la loro applicazione finì per giovare a un gran numero di persone e forse di animali senza dover attendere approfonditi studi scientifici.

Da questo traiamo profitto ancora oggi. «Non disprezzate le verità empiriche», così il famoso scienziato Martin H. Fischer ammoniva i suoi colleghi, «molte delle cose che funzionano nella pratica non hanno riscontro in laboratorio». Tuttavia, anche se la nostra devozione alla scienza fosse tale da farci ignorare tutte le evidenze pratiche, se non confermate da infinite indagini di laboratorio e studi in doppio cieco, in materia di virtù terapeutiche del miele non abbiamo più alcuna scusa. Ciò che da tempi remoti è dimostrato a livello empirico è stato efficacemente provato dalla ricerca scientifica sul miele. Con buona probabilità, la maggior parte dei meccanismi antimicrobici di quest’alimento sono stati decriptati. I più importanti principi attivi responsabili si definiscono inibine (sostanze che inibiscono). Qui di seguito ne presenterò dettagliatamente alcune, ma per prima cosa è bene spiegare l’effetto osmotico.

Il fattore acqua

Il miele è costituito in misura preponderante da zucchero e nella fattispecie soprattutto da glucosio e fruttosio. Le varietà che contengono un'alta percentuale di glucosio hanno una consistenza che varia da cremosa a solida, mentre quelle con elevato contenuto di fruttosio rimangono a lungo fluide. Inoltre, il miele contiene acqua. Nel miele maturo la percentuale di acqua è inferiore al 20 per cento. Abbiamo dunque a che fare con una soluzione zuccherina estremamente satura. Per riprodursi e per sopravvivere i batteri hanno bisogno di acqua. Nel miele maturo i microrganismi non possono riprodursi: il miele sottrae loro questo vitale elisir. Solo in varietà di miele molto acquose, ad esempio, è possibile la sopravvivenza dei lieviti che portano alla fermentazione, fatto auspicabile unicamente nel caso della produzione di idromele.

L’osmosi fa anche sì che il liquido linfatico sia attratto verso le cellule dell’area della ferita. Questo favorisce la pulizia dell’area infetta e il rapido smaltimento dei frammenti di cellula che vi si accumulano. L’ambiente umido nell'area infetta ha inoltre il vantaggio di non permettere che la ferita si rimargini solo a livello superficiale, mentre in profondità continua a covare il processo infiammatorio. Inoltre le bende non restano appiccicate al tessuto di granulazione, cosicché la sostituzione non provoca quasi né dolore, né ritardo del processo di guarigione.

L’osmolarità è un fattore che contribuisce alle proprietà antibatteriche del miele, ma non spiega come mai quest’ultimo sia nettamente superiore agli altri zuccheri. La caratteristica del miele di estrarre acqua, ad esempio dal liquido di una ferita (essudato), fa sì che nella maggior parte di varietà di miele l’enzima in esse contenuto (glucosio ossidasi) scateni una reazione chimica.

L’acidità non giova

A questa strategia delle api, che permette una facile conservazione del miele, soprattutto batteri e funghi reagiscono con particolare acrimonia. L’enzima glucosio ossidasi scatena una reazione che coinvolge glucosio, ossigeno e acqua, e dà origine, oltre all'acido gluconico, anche al perossido di idrogeno (H2O2), ovvero acqua ossigenata, ben nota per le sue proprietà antisettiche. L’azione dell’H2O2 è però potenzialmente tossica sulle cellule, perciò è molto utile che vengano forniti subito alcuni elementi di sicurezza. Anzitutto c’è un effetto che possiamo definire “ritardante”. Il tessuto non viene completamente irrorato di H2O2: questa sostanza candeggiante viene rilasciata costantemente in piccola quantità.

Il perossido di idrogeno libero è presente solo nel miele non maturo, che previene l'invasione e la riproduzione dei germi patogeni, che nell'ambiente acido non riescono a prosperare. Nel miele maturo, che contiene meno del 20 per cento di acqua, questa reazione antibatterica a catena è dormiente, finché non viene innescata dall'acqua, contenuta ad esempio nella saliva o nella secrezione di una ferita, nel sito di impiego medicinale del miele. Un altro enzima contenuto nel miele e nel tessuto, la catalisi, neutralizza il perossido di idrogeno nelle aree più profonde della ferita, fatto che da un lato impedisce un danno ai tessuti, dall'altro però sospende anche l’effetto antimicrobico. Questo vale per la maggior parte delle varietà di miele, ma non per quello di Manuka neozelandese, che si comporta in modo del tutto diverso. Se si neutralizza l’attività comunque minima del suo perossido mescolandolo alla catalasi, alcune partite di questo miele si rivelano straordinariamente attive contro diversi germi, in particolare contro quelli che negli ultimi tempi stanno dando parecchio filo da torcere agli antibiotici.

Per circa vent'anni gli scienziati non sono riusciti né a individuare né a isolare il principio attivo responsabile di quest'effetto, perciò si era concordato di definirlo Unique Manuka Factor (Fattore Unico di Manuka), in breve UMF. Se ne era constata in laboratorio l'intensità paragonandone di volta in volta l'efficacia contro diversi batteri con l’effetto di una soluzione di fenolo (acido fenico). Se ad esempio il miele si rivelava efficace come una soluzione di fenolo al 10 per cento, lo si classificava come UMF10. Il segno “più” posposto al numero, ad esempio 10+ o 20+, segnala che il fattore individuato non solo raggiunge, ma supera addirittura il grado di efficacia indicato. Questa classificazione si è rivelata per molti aspetti insoddisfacente. Da un lato le procedure dei test non sono riproducibili in maniera esatta, e soprattutto non sono quantificabili, perciò non è possibile fornire indicazioni univoche sull'esatta quantità del principio attivo. D’altro canto, da un punto di vista scientifico era già a dir poco impreciso avere a che fare con un “fattore sconosciuto”, del quale si conosceva la presenza ma cui non si riusciva a dare un nome. La dose letale di fenolo è del tutto variabile a seconda del batterio, e questo vale anche per il corrispondente effetto del miele.

La situazione è cambiata radicalmente da quando un team di chimici alimentari del Politecnico di Dresda è riuscito a far luce sulla sostanza responsabile: di questo mi occuperò a fondo più avanti. Nel nostro mondo così fiducioso nella scienza, in cui causa ed effetto vengono spesso e volentieri interpretati come semplici processi meccanici, dall’isolamento e dalla possibile sintesi di un singolo principio attivo ci si attende in tempi brevi lo stesso effetto precedentemente osservato in un complesso cocktail di sostanze naturali. A questo proposito i sostenitori di un approccio olistico amano citare il filosofo greco Aristotele, che già nel IV secolo a.C. annotava: «L’intero è più della somma delle sue parti!». Oggi quest’acuta osservazione si riassume in una sola parola: sinergia. Descrive l’effetto superiore dell’interazione combinata di singoli componenti, in cui ciascuno riporta risultati del tutto ragguardevoli, che tuttavia diventano insuperabili solo nella sezione comune. Anche se ora nell’orchestra del miele di Manuka il metilgliossale riveste il ruolo di primo violino, la sinfonia nasce solo dall’arrangiamento armonico di tutti gli strumenti.

Questo testo è estratto dal libro "Il Miele di Manuka".

Data di Pubblicazione: 1 ottobre 2017

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