Esplora l'affascinante tukdam, la pratica ascetica buddhista in cui la Coscienza vive oltre la morte, leggendo l'anteprima del nuovo libro di Daniela Muggia.

La morte non è un interruttore

"Tutti muoiono, ma nessuno è morto".

Proverbio Tibetano

Se il titolo del libro vi pare provocatorio… beh, forse lo è.

E forse no.

L’Occidente, infatti, ha spesso descritto il passaggio dalla vita alla morte come un interruttore che passa da “acceso” a “spento” appena il cuore smette di battere e un esame degli strati più superficiali del cervello mostra che non vi è più attività.

Un attimo prima sei vivo, un attimo dopo sei morto. Ma queste due etichette sono come istantanee fotografiche, incapaci di cogliere il complesso processo, esteso nel tempo, descritto da molte tradizioni tanatologiche della Terra, prima fra tutte quella tibetana, oggi largamente studiata anche da neuroscienziati, medici e tanatologi occidentali.

La ricerca neuroscientifica si è inizialmente dedicata, in effetti, soprattutto allo studio dei processi neurali che intervengono nel breve tempo che circonda la morte clinica, ma oggi è in grado di valutare empiricamente il processo esteso del morire e, più specificamente, di indagare sulla possibilità che sussistano attività cerebrali dopo la cessazione della funzione cardiaca e respiratoria.

L’eventualità che le antiche tradizioni mistiche possano non aver torto è, nel caso di quella tibetana, supportata da una serie di osservazioni di testimoni oculari meticolosamente annotate in tempi antichi e a noi vicini, da cui non si può prescindere.

Ci si interroga allora tanto su come poter dimostrare o misurare oggettivamente la presenza di una coscienza soggettiva post mortem, quanto sugli eventuali fattori o comportamenti (per esempio la meditazione) che possano favorire il persistere di un’attività cerebrale, dopo il decesso, collegabile a una tale consapevolezza soggettiva, e, ovviamente, sui risvolti etici di una conferma del genere.

Di questo si occupa uno studio ancora in corso che riguarda il fenomeno noto come tukdam, in tibetano, fenomeno di cui parleremo qui ma soprattutto nel capitolo 7.

 

di-morte-non-si-muore-daniela-muggia-libro

 

Lo studio in questione, condotto da un gruppo formato da esperti del Center for Healthy Minds dell’Università del Wisconsin-Madison e da medici tibetani, fra cui il dottor Tsetan Dorji Sadutshang che è a capo di una importante istituzione medica, il Delek Hospital di Dharamsala in India, è anche il primo progetto che riporti le osservazioni sul tukdam in modo sistematico ad essere sottoposto a revisione paritaria su una rivista scientifica: Frontiers of Psychology.

Tenta per primo di descrivere il fenomeno del tukdam nella letteratura scientifica, medica e medico-legale occidentale, e intende scoprire se durante le ore successive alla morte clinica gli individui che mostrano i segni del tukdam abbiano un’attività cerebrale misurabile.

I risultati dell’indagine sono ancora di là da venire, perché al momento i ricercatori si sono trovati davanti a difficoltà tanto culturali quanto logistiche con le quali dovranno venire a patti in qualche modo per poter rilevare in tempo utile i dati di cui hanno bisogno.

Sebbene questo significhi che non si hanno ancora dati per risolvere l’enigma che il tukdam rappresenta per la scienza, il report pubblicato su Frontiers of Psychology avvia se non altro una riflessione sul fatto che la morte sia un processo e non un istante nel tempo, e su quale compito abbia l’intera società nel garantire olisticamente il benessere fisico, mentale e spirituale (non necessariamente inteso nel senso di “religioso”) di chi sta attraversando tale processo.

Il mio personale augurio è che questa riflessione possa offrire anche all’etica un contributo informativo su pratiche come il prelievo di organi dopo che un individuo è stato dichiarato “clinicamente morto” e sulle condizioni che possono favorire una transizione pacifica nel processo di morte.

 

libro-di-morte-non-si-muore-muggia

 

Cos’è il tukdam?

Lo stato di tukdam si verifica quando il corpo del “defunto” mostra una serie di segni, tra cui assenza di decomposizione dopo la morte, che in genere è preceduta da un periodo di meditazione che accompagna il processo stesso del morire ma soprattutto è il coronamento di una vita di pratica meditativa.

Secondo le numerose testimonianze, molte delle quali riportate nel capitolo 7, questo stato meditativo si manifesta esternamente come un ritardo o un’attenuazione dei processi di decomposizione post mortem: il viso di coloro che sono in tukdam è descritto come radioso, la pelle rimane morbida ed elastica, e l’area intorno al cuore si dice sia più calda del resto del corpo.

E questi segni possono permanere per una settimana o anche un mese: persino nella stagione calda, in India, c’è chi è rimasto in questo stato meditativo post mortem anche per un mese.

Quando compaiono i segni di decomposizione corporea, si capisce che il tukdam è finito.

Questo stato è ritenuto dai buddhisti tibetani un modo di esperire la natura fondamentale della mente, resa particolarmente accessibile nel momento della morte giacché la mente ordinaria smette di registrare impressioni sensoriali e di impegnarsi in elaborazioni concettuali: un’opportunità che sorge in modo naturale per tutti gli esseri senzienti durante il processo della morte, ma che richiede un buon addestramento meditativo per poter essere riconosciuta e usata per la realizzazione spirituale.

 

di-morte-non-si-muore-libro-muggia

 

Rimane una forma di consapevolezza o coscienza dopo la morte clinica?

Dylan Lott, fra i ricercatori dello studio citato, ricorda che gli studi precedenti, misurando l’attività cerebrale di una persona in meditazione attraverso strumenti come l’elettroencefalografo, hanno rilevato una impronta speciale, per cui si è chiesto se anche nel caso di un praticante che medita fino alla morte non vi possa essere una segnatura neurale unica o residua.

L’ipotesi è supportata da studi su animali ed esseri umani che riportano un’attività cerebrale residua e misurabile nei primi minuti dopo la morte clinica, quando il respiro è cessato e il cuore ha smesso di battere, implicando che ci possa essere un certo livello di consapevolezza o coscienza post mortem.

 

di-morte-non-si-muore-daniela-muggia

 

Le difficoltà incontrate dai ricercatori

Lo studio ha fin qui preso in esame 13 casi di dichiarato tukdam, ma ha dovuto affrontare complesse condizioni sul campo, in India.

Occorre comprendere bene che, nel contesto buddhista tibetano, il tukdam è considerato un segno di elevata realizzazione spirituale, e quindi di una vita vissuta secondo i princìpi di un’etica compassionevole, ed è ritenuto un indizio certo che colui che lo esperisce sarà in grado di portare grandi benefici al mondo nella sua prossima incarnazione, e che assisterlo in questo compito meditativo sia un modo per creare con lui un legame karmico favorevole per la prossima vita.

Ha un impatto spirituale fortissimo per i tibetani che, bön o buddhisti, hanno il privilegio di assistervi. Dylan Lott fa notare che "è molto importante costruire un rapporto di fiducia con i praticanti che circondano chi è in tukdam, trattandosi perlopiù di discepoli che assistono il loro maestro. Per quest’ultimo, come per loro, la morte è una opportunità unica per conseguire lo stato di Illuminazione, o liberazione, dunque occorre procedere con
grande delicatezza per non interferire con questa opportunità".

E il dottor Tsewang Tamdin, Presidente del Consiglio Medico dell’istituto Men-Tsee-Khang (Sowa-Rigpa), ci ricorda quale impatto potrebbero avere i risultati di questo studio sulla società tibetana:

"Se gli scienziati saranno in grado di fornire le prove del tukdam, si risveglieranno fra i giovani la fiducia e l’interesse per le pratiche meditative tradizionali".

E aggiunge che l’impatto potrebbe essere di ben maggiore portata: "Spero che possa costituire, per tutta la società, un esempio di cosa possa fare una mente piena di gioia e tranquillità".

Si comprende dunque il primato, presso le comunità, del buon esito del tukdam per chi lo pratica su qualsiasi indagine scientifica, per cui il permesso di studiare il deceduto nel caso di questo studio è arrivato diversi giorni (e non ore, o minuti, come sarebbe stato auspicabile!) dopo la morte clinica; insieme alle altre difficoltà logistiche per raggiungere i luoghi, spesso remoti, in cui il tukdam era in corso, questo è stato certamente un fattore limitante nella raccolta dei dati: per esempio, la prima rilevazione è avvenuta ben 26 ore dopo il decesso.

Non vi erano più segnali EEG, ma questo, fanno notare i ricercatori, ovviamente non esclude che ci siano stati prima, e che i ricercatori possano essere arrivati troppo tardi per misurarli. Essi hanno rilevato anche una certa criticità nell’equipaggiamento che avevano a disposizione: è possibile che possa non essere sufficientemente sensibile per le rilevazioni necessarie.

 

di-morte-non-si-muore-muggia-libro

 

Come si accertano i casi di tukdam?

Scrive il dottor Tsetan Dorji Sadutshang, che ha contribuito alla ricerca sul campo e come consulente allo studio di cui stiamo parlando:

"Gli individui che ero sicuro fossero in stato di tukdam erano persone il cui corpo non mostrava alcun segno di decomposizione anche dopo una settimana – dice. – Questo è il segno più affidabile, e ci sono pochissimi casi del genere… una persona che sia veramente in tukdam mantiene ancora una certa luminosità della pelle, in particolare del viso. Si trattava di individui noti per essere, rispetto a chi non era in tukdam, espertissimi praticanti di
Dharma, e c’erano, in questo senso, molti testimoni".

E il dottor Tsewang Tamdin, Presidente del Consiglio Medico dell’istituto Men-Tsee-Khang (Sowa-Rigpa), ci ricorda quale impatto potrebbero avere i risultati di questo studio sulla società tibetana: "Se gli scienziati saranno in grado di fornire le prove del tukdam, si risveglieranno fra i giovani la fiducia e l’interesse per le pratiche meditative tradizionali".

E aggiunge che l’impatto potrebbe essere di ben maggiore portata: "Spero che possa costituire, per tutta la società, un esempio di cosa possa fare una mente piena di gioia e tranquillità".

Si comprende dunque il primato, presso le comunità, del buon esito del tukdam per chi lo pratica su qualsiasi indagine scientifica, per cui il permesso di studiare il deceduto nel caso di questo studio è arrivato diversi giorni (e non ore, o minuti, come sarebbe stato auspicabile!) dopo la morte clinica; insieme alle altre difficoltà logistiche per raggiungere i luoghi, spesso remoti, in cui il tukdam era in corso, questo è stato certamente un fattore limitante nella raccolta dei dati: per esempio, la prima rilevazione è avvenuta ben 26 ore dopo il decesso.

Non vi erano più segnali EEG, ma questo, fanno notare i ricercatori, ovviamente non esclude che ci siano stati prima, e che i ricercatori possano essere arrivati troppo tardi per misurarli. Essi hanno rilevato anche una certa criticità nell’equipaggiamento che avevano a disposizione: è possibile che possa non essere sufficientemente sensibile per le rilevazioni necessarie.

 

di-morte-non-si-muore-libro-daniela-muggia

 

Come si accertano i casi di tukdam?

Scrive il dottor Tsetan Dorji Sadutshang, che ha contribuito alla ricerca sul campo e come consulente allo studio di cui stiamo parlando:

"Gli individui che ero sicuro fossero in stato di tukdam erano persone il cui corpo non mostrava alcun segno di decomposizione anche dopo una settimana – dice. – Questo è il segno più affidabile, e ci sono pochissimi casi del genere… una persona che sia veramente in tukdam mantiene ancora una certa luminosità della pelle, in particolare del viso. Si trattava di individui noti per essere, rispetto a chi non era in tukdam, espertissimi praticanti di
Dharma, e c’erano, in questo senso, molti testimoni".

 

libro-di-morte-non-si-muore-daniela-muggia

 

Da quale esigenza nasce il progetto

Il progetto nasce da decenni di collaborazione tra Sua Santità il Dalai Lama e Richard Davidson, direttore del Center for Healthy Minds, e dalla sfida lanciata a scienziati, psichiatri e psicologi perché scoprano, applicando rigorosamente il metodo scientifico, cosa accade alla mente durante il manifestarsi del tukdam.

"La medicina occidentale ha della morte un concetto binario: sei vivo in un dato momento o morto in un altro, – dice Davidson. – Ma i processi biologici non funzionano come un semplice interruttore: sono più graduali. Abbiamo la speranza che questa ricerca catalizzi un dibattito e sollevi domande sulla morte come un processo e non come un interruttore binario".

Il team ha in programma di continuare la collaborazione e di coinvolgere i praticanti buddhisti tibetani, maschi e femmine, per indagare sulle loro esperienze e sul loro benessere mentre invecchiano nei campi profughi dell’India e del Nepal, creando con loro un rapporto di fiducia e rispetto tale da poterli poi esaminare quando e se entreranno in tukdam.

Data di Pubblicazione: 15 giugno 2022

Ti è piaciuto questo articolo? Rimani in contatto con noi!

Procedendo con l'invio dei dati:

Lascia un commento su questo articolo

Caricamento in Corso...