Scopri alcuni passaggi del racconto biblico, depurati dai filtri ideologici e culturali della nostra epoca, leggendo l'anteprima del libro di Mauro Biglino e Giorgio Cattaneo.

L'invenzione del Dio biblico e del suo antagonista, il Satan

Male non fare, paura non avere.

Un vecchio adagio, che rinvia alla presenza impalpabile di un giudizio incombente, una possibile punizione nel caso si commettessero deplorevoli misfatti.

È sempre vero, anche in ambito religioso?

Manco a dirlo, Biglino smentisce. Gli basta sfogliare l’ultima edizione del Catechismo cattolico, come ha fatto in un video-intervento pubblicato il 3 dicembre 2020.

L’articolo 1038 menziona il “giudizio finale”, nel quale i fedeli «sperano di essere salvati tutti, perché confidano nella bontà del “Dio padre” presentato dalla teologia cristiana».

Si legge: allora, Cristo verrà nella sua gloria, con tutti i suoi angeli. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti: ed Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri. E porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. E se ne andranno, i capri, al supplizio eterno, mentre i giusti avranno finalmente accesso alla vita eterna.

Il Catechismo cita i versetti 31-46 del capitolo 25 del Vangelo di Matteo.

Che tipo di crimini avrebbero commesso, i “capri”, per meritare una pena senza remissione?

«Andate via da me, o maledetti», li si apostrofa, spedendoli «nel fuoco eterno preparato per il diavolo e i suoi seguaci».

Seguono i capi d’imputazione: «Ebbi fame e non mi deste da mangiare, ebbi sete e non mi deste da bere, ero pellegrino e non mi ospitaste, nudo e non mi copriste, infermo e in carcere e non veniste a trovarmi».

Alle proteste dei “capri”, la risposta è inflessibile.

«In verità vi dico: ciò che non avete fatto a uno di questi più piccoli, non l’avrete fatto a me».

La sentenza è confermata: castigo eterno.

«A essere condannati non sono gli autori di crimini efferati, ma persone che semplicemente non si sono prodigate nel fare del bene», osserva Biglino. «A mio parere, la motivazione della condanna è di una spietatezza incomprensibile, soprattutto se si pensa che è formulata da colui che avrebbe detto “perdonate, fino a settanta volte sette”».

Non è previsto alcuno sconto di pena, nei confronti di chi non è stato abbastanza altruista.

Alcune parabole

Una tesi che viene però smentita, e in modo vistoso, nello stesso Vangelo di Matteo. Al capitolo 25, il testo presenta la famosa parabola delle dieci vergini, alle prese con la vigilia di una festa nuziale (che poi è la simbolizzazione del “regno dei cieli”).

Le giovani vanno incontro al futuro sposo, nella notte, armate di lampade. Quando l’uomo finalmente arriva, con grande ritardo, solo metà delle ragazze hanno ancora il lume acceso, pronte a rischiarargli la via.

Le altre non erano state abbastanza previdenti da portare un sé una scorta di olio. Ne chiedono un po’ alle cinque vergini “prudenti”, ma queste glielo negano: «Andate piuttosto a comprarvelo dai venditori».

E cioè: arrangiatevi.

Recuperato l’olio, le ragazze “stolte” si precipitano alla casa del banchetto. Ma a respingerle, stavolta, è direttamente lo sposo: «In verità vi dico: non vi conosco».

C’è qualcosa di più spietato? Di più lontano dall’idea del perdono?

«E poi: chi sta premiando, questo ipotetico regno dei cieli? Le vergini “prudenti”. E fin qui, tutto bene: sono encomiabili. Ma quando le vergini “distratte” chiedono aiuto, queste non glielo danno. Sono palesemente egoiste: peggio per voi, dicono, se avete dimenticato di fare scorta di olio. E alla fine, lo sposo chi premia? Loro. E punisce le altre: che avevano commesso un errore, non un crimine. Eppure, solo per questo, non entreranno più nel regno dei cieli».

Come si concilia, questa spietatezza, con la figura della divinità infinitamente compassionevole, impersonifìcata da Gesù?

«Il personaggio qui presentato - dice Biglino - mi appare totalmente in linea con il cosiddetto “Dio padre”, quello dell’Antico Testamento: altrettanto spietato, nel tenere fuori dal Tempio - cioè dal contatto diretto con lui - persone che non hanno commesso colpe, ma sono semplicemente affette da malattie o colpite da malformazioni».

Nel capitolo 21 del Levitico, è lo stesso Yahweh a impartire istruzioni precise, a Mosè, su chi non potrà avvicinarglisi fìsicamente. Ad Aronne, il sommo sacerdote, Mosè dovrà trasmettere indicazioni rigidissime.

«Nessuno, della tua discendenza, si accosti ad offrire il nutrimento del suo Dio se ha un difetto, poiché nessun uomo che abbia un difetto deve fare l’offerta: né un cieco, né uno zoppo, né uno che abbia mutilazione o deformità, né un uomo che abbia un difetto ai piedi o alle mani, né un gobbo, né un nano, né uno affetto da malattia agli occhi, o da scabbia, o da piaghe purulente, o uno che abbia i testicoli difettosi».

Yahweh pretende che la discendenza di Aronne sia sempre in piena salute e priva di problemi fisici: in caso contrario, il deforme e il malato non si potranno avvicinare al Tempio, «per offrire il cibo del suo Dio».

E che colpa avrebbero, un cieco o un gobbo?

«Semplicemente, non piacciono a “Dio”: non li vuole vedere». Quello, peraltro - aggiunge Biglino - non è certo l’unico passo biblico in cui si annuncia una simile, severissima selezione.

«Il figlio illegittimo non entrerà nella comunità del Signore», si legge nel capitolo 23 del Deuteronomio: e i suoi discendenti non potranno accedervi «neppure alla decima generazione».

Esaminando questi brani, Biglino tende a non vederla affatto, una cesura netta tra Antico e Nuovo Testamento, a cominciare dall’inflessibile esclusione dei “capri” nel passo del Vangelo di Matteo citato nel Catechismo.

È frequente, per ovvie ragioni storiche, il ricorso all’evocazione degli ovini, per illustrare insegnamenti di ordine morale. Lapidaria, la parabola del “buon pastore” presentata dal Vangelo di Giovanni.

«Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me», si legge. «Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario - che non è pastore e al quale le pecore non appartengono - vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde».

A Mauro Biglino, questa immagine pastorale non è mai piaciuta: la trova fuorviarne.

«È vero, il pastore difende le pecore dal lupo. Ma per farne cosa? Nella vita reale, la risposta la conosciamo: il pastore protegge i suoi animali perché dovrà essere lui solo a mungerli e tosarli. E alla fine dovrà essere lui, non il lupo, a scannarli, venderli o mangiarli».

Come dire: la zoofilia è solo apparente, temporanea e strumentale. In più fa tornare alla mente certi cattivi pensieri, quelli di chi oggi parla di zootecnia sociale.

Del tutto fuori luogo, poi, appaiono le considerazioni morali espresse in modo schematico.

Bene e male?

L'etica è mutevole, si sa: non c'è nulla di più instabile, nel tempo. Un caso classico? Socrate. Condannato per la “corruzione dei giovani” di cui si sarebbe macchiato (la passione per i minorenni era ordinariamente accettata, nella Grecia antica).

Ben più fastidioso, per i reggenti di Atene, doveva esser stato l’altro capo di imputazione: la ribellione di Socrate al potere, emblematizza nel suo non riconoscere più le divinità tradizionali della polis, e quindi i loro potenti sacerdoti.

Per inciso, le divinità erano sempre le stesse, quelle omeriche e le altre: i personaggi che viaggiavano nei cieli con il Kavod, e che pretendevano una dose quotidiana di grasso da far abbrustolire, per poterlo aspirare avidamente.

Non è strano che poi, da tutto questo, siano nate vere e proprie religioni?

La vecchia storia di Sanchuniaton, il fenicio, suggerisce una parolina magica: manipolazione. Deformazione della realtà, occultamento dei fatti. E costruzione, a tavolino, di una versione concordata: una mitologia delle origini.

Come dire: sembra sia stato modificato, in tempi relativamente recenti, qualcosa che in partenza doveva essere un resoconto realistico di fatti molto concreti, e non necessariamente edificanti. Per esempio, il possibile contatto con le cosiddette divinità.

È questa, in fondo, l’ipotesi-cardine dell’intero lavoro di indagine condotto da Mauro Biglino a partire dall’esame testuale della trattazione biblica.

«Tra il V e il IV secolo prima di Cristo - dice - inizia una rielaborazione in chiave spiritualistica dei testi più antichi. Viene così introdotto un concetto di premio-punizione, prima assente, che pian piano si sgancia da quello che era in origine il rapporto con Yahweh: ci si limitava infatti a chiedere il suo aiuto per avere potere, successo e benessere».

Nessuna vita eterna: «Le promesse di Yahweh andavano realizzate in questa vita, che poi era l’unico oggetto di interesse degli autori biblici».

Qualcosa di materiale, immediato, ragionevole: senza nulla di metafisico o di mistico.

Tutto il resto - il bene e il male, in senso spirituale - sono cognizioni successive, molto più tarde.

«I “giusti” di Sodoma, come Lot, non sono per forza individui probi: sono semplicemente persone rimaste fedeli all’alleanza con Yahweh, e quindi distanti dagli Elohim suoi rivali».

Il concetto di giustizia, per come lo intendiamo oggi, non era certo in questione, a Sodoma.

Idem l’idea di male: era, semplicemente, distanza dalle disposizioni quotidiane di Yahweh.

E Satana?

Che dire, ancora, del “principe delle tenebre” che appassiona i satanisti e preoccupa gli esorcisti?

«Il concetto di Satana pare essere antecedente alla cultura giudaico-cristiana».

Quello che conosciamo noi, spiega Biglino, «è un personaggio elaborato, nei secoli, dai Padri della Chiesa».

E da dove sono partiti?

«Hanno preso spunto dai pochi cenni che la Bibbia ne fa. In particolare, lo hanno collegato artificiosamente con il Lucifero di cui parla il profeta Isaia».

Isaia parla di Lucifero?

«Sì, ma usa questo termine per definire, con ironia, un sovrano babilonese: un potente che si credeva portatore di luce, e invece è decaduto miseramente».

Va a finire che c'è sempre un indizio che costringe a tenere gli occhi sul testo, evitando di sconfinare nei mondi dell’impalpabile, del profetico, del vaticinante.

Il Lucifero di Isaia, un sovrano babilonese nemico degli ebrei, sembra speculare alla Bestia dell’Apocalisse codificata con il celeberrimo 666: l’imperatore Nerone, temuto dai primi cristiani. Se si perde di vista il testo, poi può succedere di tutto.

«Satana è stato persino collegato con il serpente che ha tentato Eva: ma di questo collegamento non vi è alcuna traccia, nella Bibbia».

Per la verità - e questo è ben più rilevante - nella Bibbia ebraica non è mai presente neppure una parola per noi importantissima: Dio.

Al tema, Biglino ha dedicato libri dal titolo più che eloquente. “Non c’è creazione nella Bibbia”. “La Bibbia non è un libro sacro”. E soprattutto: “La Bibbia non parla di Dio”.

Nell’Antico Testamento, è la sua tesi, non è presente l’atto divino per eccellenza, la cosiddetta “creazione dal nulla”.

E poi: come si potrebbe davvero scriverlo, un libro sulla divinità onnipotente e onnisciente, utilizzando una lingua che non la contempla neppure, la parola “Dio”?

«Il termine “Dio” così come lo intendiamo noi - spiega Biglino - entra nella Bibbia solo in occasione della traduzione fatta in latino da San Gerolamo, nel IV secolo dopo Cristo».

Prima, il vocabolo non c'era proprio, nell’Antico Testamento.

È Gerolamo a introdurre quell’espressione, in latino: “Deus”. L’espressione lo sappiamo, si rifa al greco: “Theos”.

E sappiamo anche a quali e quanti “theoi” si riferisse, quel termine, prima che venisse successivamente sdoganata, nel Mediterraneo, l’idea del Dio unico.

«Attenti, però: in origine,’’theos” non era neppure un sostantivo, ma solo un aggettivo. Indicava “l’atto del muoversi velocemente nello spazio” così come fanno gli astri».

Come se gli dèi fossero essenzialmente guardiani, sorveglianti dotati di capacità fuori dell’ordinario.

«E stata la teologia, poi, a elaborare il concetto di “Deus” trasformandolo nel Dio che conosciamo».

Il punto è che l’ha collocato nella Bibbia, 1600 anni fa.

«Già, ma in realtà in ebraico non esiste proprio, il termine che indica Dio, inteso come entità trascendente e spirituale».

La lettura in lingua originaria lo rivela in modo vistoso.

Nella Bibbia, semmai, abitano stabilmente gli Elohim.

Si menziona Yahweh, che spesso è vocalizzato diversamente: Yeowah, Yihwih.

C’è Elyon, c’è El Shaddai.

E Dio?

Non pervenuto, nel testo.

«Dio è il vocabolo con cui viene artificiosamente tradotto il termine Elohim, il cui significato certo non è conosciuto».

Biglino ne è sicuro.

«Non c’è nessuno, al mondo, che oggi possa tradurre correttamente il vocabolo Elohim».

Nella Bibbia tradotta nelle lingue moderne, in compenso, ricorre un altro termine: l’Altissimo.

«Certo: Altissimo è il superlativo assoluto con cui viene reso il termine biblico Elyon, che in realtà significa semplicemente “colui che sta sopra”».

Elyon, spiega il traduttore, è utilizzato anche per indicare ad esempio la parte alta di un villaggio, oppure il piano superiore di un’abitazione.

Nel Salmo 82, peraltro, Elyon viene citato direttamente nell’assemblea degli Elohim. Sembra il loro capo supremo, e infatti ne presiede l’assemblea. Addirittura, li ammonisce: non credano di poter abusare troppo del loro potere, nel maltrattare gli umani in modo così dispotico. È il famoso passo in cui si ricorda agli Elohim il loro destino mortale, come quello degli Adamiti. L’espressione “Altissimo”, dunque, sembra avere soltanto una sfumata attinenza con il testo: del resto, in ebraico non è un superlativo, tanto meno assoluto.

E l’Onnipotente?

«Pura invenzione, in questo caso: il termine “onnipotente” viene impiegato per tradurre El Shaddai».

Compare per la prima volta nel capitolo 17 della Genesi.

«Io sono El Shaddai», dice ad Abramo, presentandosi.

El Shaddai: cioè?

«Il significato più probabile è quello di “signore delle steppe”, come detto dalla stessa esegesi cattolica».

Ricapitolando: Elyon diventa l’Altissimo, e El Shaddai l’Onnipotente.

E l’Eterno?

«Ennesima interpretazione arbitraria: “eterno” è una traduzione errata del termine ebraico “olam”, che significa esclusivamente “non conosciuto”. Si riferisce al tempo, ma il più delle volte allo spazio. In uno dei Salmi, si dice che gli Yahweh è “Signore di Olam”, e con questa definizione probabilmente si intendeva che il suo territorio d’origine non era conosciuto».

Sconosciuto, dunque: non eterno.

«Il concetto di eternità, infatti, non fa parte dell’antica cultura semitica. “Signore”, poi (insieme a “l’Eterno”) è un altro dei termini con cui viene tradotto Yahweh».

E si ha idea dell’origine del termine Yahweh?

«Il significato di Yahweh è ipotizzato in modo assai vario, perché non è conosciuto: non sappiamo neppure in che lingua sia stato pronunciato, in origine».

Rassicurante, no?

Forse è giunto di momento di fermarsi, e fare un bel respiro. Ricapitolando: nella Bibbia, “Dio” non c'è.

Ci sono Elyon, El Shaddai, Yahweh e gli altri Elohim, tra cui Kamosh e Milkom, cioè Belzebù e Belfagor, o meglio Baal Zavuv e Baal Peor.

Certo, possiamo continuare a far fìnta che nell’Antico Testamento ci siano l’Altissimo, l’Eterno e l’Onnipotente. Possiamo credere che ci sia “lo spirito”, anziché il Ruach, e “la gloria di Dio” al posto del Kavod di Yahweh.

Possiamo credere che sia stato davvero un serpentello un po’ disneyano, a tentare la povera Eva, e possiamo persino continuare a credere che esistesse davvero, quella mela.

Macché.

Non c'era, la mela: non c’è mai stata. E l’Eden non era il Paradiso Terrestre: il Gan era una specie di allevamento sperimentale protetto.

Tra quelle pagine non c'è neppure la creazione dell’universo: non c’è traccia del verbo “creare”, del resto. E quella bellissima parola ebraica, “bereshit”, probabilmente vuol solo dire “all’inizio di questa storia”, e non “all’origine dei tempi”.

Possiamo credere alla maledizione delle “piaghe d’Egitto”, oppure leggere le cronache che parlano delle catastrofiche emissioni gassose sulle rive dei laghi africani come il Nyos in Camerún o il Kivu, al confine tra Congo e Ruanda: l’improvvisa colorazione delle acque, che diventano rosso-sangue, si accompagna a esalazioni letali, che fanno strage della popolazione rivierasca e procurano disastrose conseguenze a catena, anche al bestiame, come quelle raccontate nell’Esodo.

A chi credere?

La stessa esegesi ebraica conosce benissimo, da sempre, l’esatto significato dell’espressione Yam-Suf: mare di canne. Non c’è mai stato nessun Mar Rosso, nell’epopea di Mosè.

Vale anche per il Satan: nella Bibbia non c’è traccia del Maligno, del “principe delle tenebre”.

Allo stesso modo, da sempre, gli studiosi ebrei sanno che gli Adamiti sono stati prodotti mediante clonazione genetica.

E sanno che i Cheruvim e i Serafini, per esempio, non sono mai stati graziosi angioletti, bensì oggetti tecnologici, meccanici.

A chi dare credito, quindi?

Fate voi, risponde Mauro Biglino. Decidete con la vostra testa. «L’ho spesso ripetuto, in decine di conferenze: non fidatevi nemmeno di quello che vi racconto io. Datemi retta, fatevi un regalo: leggetela, la Bibbia, e scoprirete molte cose interessanti. A me, almeno, è successo proprio così. Man mano che traducevo, mi sembrava che venissero meno tanti significati tradizionali. Al tempo stesso, però prendeva corpo un’altra storia, non meno affascinante: la nostra, probabilmente. Quella della nostra vera origine, che la Bibbia - se letta senza filtri - sembra onestamente raccontare, pur tra mille manchevolezze e contraddizioni».

Una storia vera?

«Nessuno è in grado di stabilirlo. Ripeto: l’Antico Testamento è privo di fonti».

Per contro, la narrazione che espone è estremamente plausibile. È un resoconto molto serio, la cui sincerità è drasticamente misurabile: non esita a fornire dettagli anche molto scabrosi, quando parla del personaggio che poi la teologia ha trasformato in divinità spirituale. Se avesse voluto celebrare un essere onnisciente e amorevolmente superiore, avrebbe evitato di parlare di guerre e stragi, bambine, sacrifìci umani e grasso da eviscerare.

Un racconto, quello biblico, che probabilmente è in grado di svelare molti aspetti del nostro passato più remoto. A una condizione: che lo si depuri dai filtri ideologici e culturali della nostra epoca, e da quelle che l’hanno preceduta.

Secondo gli scienziati, la Terra esiste da quattro miliardi e mezzo di anni.

Le grandi religioni che si candidano a “svelarne” l’origine, invece, hanno appena 2.500 anni di vita.

Neppur tre millenni, contro 4,6 miliardi di anni.

La si coglie, l’enormità?

Data di Pubblicazione: 11 giugno 2021

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