SELF-HELP E PSICOLOGIA

Il nostro rapporto con l’errore

Il nostro rapporto con l’errore

Vorremmo tanto essere sempre irreprensibili! Si può capire, ma è davvero possibile? Scoprilo leggendo l'anteprima del libro di Anila Trinlé.

Il nostro rapporto con l’errore

C’è un elemento che avrà grande influenza sul senso di colpa, ed è il rapporto che stabiliamo con i nostri errori. Ma cos’è un errore? Un dizionario propone questa definizione: “deviazione provocata da un malinteso”. Dal punto di vista dei buddhisti, di fronte a questa lettura sorge spontanea una domanda: “Ingannarsi non è forse insito nel nostro modo di essere?”.

E possibile non ingannarci nelle nostre valutazioni, nelle reazioni, nella comprensione delle diverse situazioni che incontriamo? Dal momento che abbiamo accesso soltanto alla nostra percezione della realtà, come potremmo essere nel giusto in ogni situazione?

Eppure, in maniera più o meno cosciente immaginiamo di dover sempre reagire in modo adeguato e pertinente. E poiché dobbiamo confrontarci con i nostri errori, ecco che formuliamo un giudizio e invalidiamo la nostra risposta alla situazione. Avrei dovuto sapere, avrei dovuto vedere, non avrei dovuto...

Questa mattina Pierre ha avuto un nuovo incarico nella sua azienda. È una promozione ed egli vuole essere all’altezza. Vagamente stressato e inquieto, comincia a consultare i fascicoli aperti, su uno dei quali nota la menzione “urgente”. Senza attendere ulteriormente, lo consulta ed esamina le risposte da dare. Si prende il tempo necessario, studia i diversi aspetti della controversia, si immerge nella riflessione senza rendersi conto del tempo che passa. Dimentica l’ora dell’appuntamento con il suo superiore gerarchico. All’improvviso lo vede comparire sulla porta del suo ufficio, sorpreso e contrariato per averlo atteso a lungo, e qui in Pierre nasce un senso di errore imperdonabile, e soprattutto si sente pervaso dal senso di colpa! “Come ho potuto dimenticare l’orario di questo appuntamento, soprattutto il primo giorno?”. Il che, ovviamente, non facilita né la sua chiarezza mentale, né la pertinenza delle sue giustificazioni, né la sua prontezza nella risposta... in breve, ha la sensazione di avere sbagliato tutto!

Il nostro rapporto confuso e critico con gli errori commessi scatena di fatto il senso di colpa. Formuliamo un giudizio affrettato e severo sulle nostre incomprensioni, sulle goffaggini, sulle valutazioni parziali ed erronee.

Vorremmo tanto essere sempre irreprensibili! Si può capire, ma è davvero possibile?

La vita è un processo di apprendimento

Se ci consideriamo apprendisti, vale a dire se prendiamo coscienza del fatto che non possiamo sapere tutto, vedere tutto, capire tutto al primo colpo, se accettiamo il fatto che il nostro modo di operare ci consente di accedere soltanto alle nostre rappresentazioni, se diamo per scontato che il nostro rapporto con gli altri e con noi stessi è di tipo emozionale, quindi limitato, allora cambia anche il rapporto con l’errore. La nostra vita diventa apprendimento, scoperta, esplorazione.

Imparare, aumentare le proprie conoscenze, sviluppare un saper fare o un saper essere: tutto ciò richiede di acquisire nuove nozioni, di confrontarle con la propria comprensione, riadattarle, approfondirle. E ciò non può essere fatto se non a tentoni, attraverso un apprendimento più o meno lungo e più o meno fruttuoso. Soprattutto, si tratta di imparare a modificare le nostre reazioni emozionali, di familiarizzarci con il nostro funzionamento, di rivisitare le nostre rappresentazioni parziali e limitanti. Ciò può essere solo il frutto di un esercizio svolto con pazienza e benevolenza.

Ogni processo di apprendimento passa quindi per lo scontro con inevitabili errori. Infatti, come potremmo imparare senza sbagliare? Possiamo osservare che imparare significa tentare. Tentare di comprendere, sforzarsi di compiere, cercare di integrare. Non possiamo farlo senza imperfezioni, imprecisioni, distrazioni o goffaggini.

Thomas Edison: “Non ho fallito. Semplicemente, ho trovato 10.000 soluzioni che non funzionano”.

Nelson Mandela: “Io non sbaglio mai: o riesco o imparo”.

Se non commettiamo errori è soltanto perché sappiamo già, possediamo già una conoscenza. Ora, a livello sia cognitivo che relazionale, affettivo o culturale, c’è sempre da apprendere. È lo stesso scontro con i nostri errori che ci consente di progredire; impariamo dalle nostre incomprensioni, perlomeno nell’ambito di un rapporto sano con l’errore. Esistono diversi modi di apprendere dai propri errori, e anche diversi criteri.

I criteri di valutazione

Vari criteri ci permettono, coscientemente o no, di valutare una mancanza. Per esempio, nell’ambito di una relazione tra amici uno dei due può aver bisogno di attenzioni e gesti significativi, mentre l’altro non è affatto in grado di sottolineare la sua amicizia in quel modo. Una parola, telefonate oppure momenti regolarmente condivisi possono essere punti di riferimento importanti per l’uno, ma per l’altro l’amicizia non può essere concepita se non come un legame profondo, senza particolari manifestazioni. Anche ritrovarsi dopo mesi, se non addirittura anni di separazione, come se ci si fosse lasciati il giorno prima, è un modo di vivere un rapporto amichevole.

Queste differenze possono indurre l’uno o l’altro a farsi delle domande sugli errori commessi, per il fatto di non aver ricevuto ciò che si attendeva.

Fin dall’infanzia, Jeanne ha sempre pensato che, quando si ama qualcuno, è necessario dirglielo. Ora, il padre, un uomo riservato e poco incline a manifestare tenerezza, le ha sempre taciuto questi sentimenti nei suoi confronti. Jeanne è convinta che il padre non la ami, o almeno non abbastanza. Il padre, ormai anziano e in fin di vita, continua a mantenere le distanze, mentre Jeanne sogna un’unica cosa: che prima di morire lui le dica “ti voglio bene”. Aspettativa legittima, certamente, ma impossibile da soddisfare dal punto di vista del papà. Lui non sa esprimere i suoi sentimenti, il suo amore. Eppure, per tutta la vita ha cercato di far capire a Jeanne fino a che punto lei contava per lui, l’ha sempre sostenuta, aiutata. Non ha bisogno di parole per sottolineare il suo amore. Ma Jeanne soffre di questo silenzio, a lei i gesti non bastano, non li considera sufficienti a vedere tutto l’amore che il padre ha per lei. Ha bisogno di parole. Non trovando soddisfazione ai suoi bisogni, arriva a pensare di non essere “amabile”, che non sia possibile volerle bene davvero, perché nemmeno il padre le ha mai detto che l’ama!

Allo stesso modo, tutti noi abbiamo una rappresentazione di ciò che dovrebbe accadere affinché tutto vada bene, a livello tanto delle nostre relazioni che della nostra visione di noi stessi. Noi possiamo essere affascinati da questa o quella personalità.

Per esempio, Tizio è gioviale, pieno di brio, tutti godono della sua compagnia, o almeno questo è quanto io percepisco. Vorrei tanto assomigliargli, ma io sono timido, riservato e ho grandi difficoltà nell'avvicinarmi agli altri.

Oppure, mentre lui è affabile e si arrabbia di rado, io mi faccio vincere regolarmente dall’impazienza e dall’irritabilità. La rappresentazione che noi abbiamo di noi stessi di fronte a un modello idealizzato ci fa cadere in fallo. Tutto ciò sulla base di idee vaghe e non necessariamente verificate.

Il senso di aver sbagliato può essere legato anche alla comprensione limitata di una situazione. Per esempio, io posso avere l’impressione che una persona, chiamiamola Sarah, non faccia ciò che dovrebbe perché ha paura, manca di fiducia in se stessa. Dal canto suo, Sarah non si muove perché sente che non ci sono tutte le circostanze per agire nel modo giusto. Tuttavia, senza considerare le motivazioni di Sarah, e dal momento che ella non agisce, mentre io penso che dovrebbe, per me si tratta di un errore e giudico inappropriato il suo comportamento...

Questi errori di valutazione sono normali e ci inducono talvolta a reagire in modo inadeguato, il che genera altri errori, potenziali fonti di senso di colpa.

Clémentine, ragazza riservata, sogna il “principe azzurro”: un uomo serio e premuroso, non necessariamente bellissimo o milionario, ma onesto e stabile, con cui costruire una vita insieme. C’è Frédéric che manifesta un vivo interesse nei suoi confronti, ma le sembra superficiale, scherza spesso ed esce con molti amici. Clémentine non lo ritiene sufficientemente serio, perché non corrisponde ai suoi criteri. Eppure, a ben guardare, è un ragazzo molto impegnato nella sua vita professionale, dotato di un carattere franco e leale. Ma la sua spontaneità e la sua allegria rappresentano un freno per la ragazza, ingannata dalle apparenze, prigioniera delle sue rappresentazioni, ed ecco nascere un giudizio severo: non è bello comportarsi così! Più tardi lei saprà che Frédéric ha sofferto per la sua indifferenza e il suo giudizio negativo e se la prenderà con se stessa per non aver saputo guardare oltre le apparenze.

Un’altra importante fonte di errore è il nostro rapporto emozionale, afflittivo, con le situazioni. Sulla base di un feeling, di una sensazione, siamo assolutamente capaci di sviluppare una forte gelosia nei confronti dell’una o dell’altra delle nostre relazioni. Oppure, ingannandoci a proposito di un atteggiamento che consideriamo a priori sgradevole, possiamo sentirci aggrediti e reagire con la collera, mentre per l’altro si trattava semplicemente di una goffaggine senza importanza. Tutti abbiamo fatto l’esperienza di tali situazioni, percepibili soprattutto quando sono i nostri atteggiamenti a essere male interpretati!

Come abbiamo visto, la visione di una situazione è sempre limitata dalle nostre rappresentazioni, e piuttosto che giudicare noi stessi o l’altro, cerchiamo di prendere coscienza di questa limitata percezione. Tale origine dell’errore è la conseguenza diretta del nostro modo di operare.

Numerosi criteri di valutazione si basano su cultura, educazione, identità sessuale, convinzioni, scelte etiche ecc. Facciamo qualche esempio.

In Occidente, in genere, noi cerchiamo rapporti basati sulla schiettezza: si tratta di dire la verità su ciò che si è o che si fa, mentre in alcuni Paesi asiatici si preferisce essere attenti al fatto che l’altro non perda la faccia.

Il rispetto della reputazione, della dignità, è al centro degli scambi, a rischio di tacere una parte della verità, il che può essere male interpretato da un occidentale, e viceversa.

Altro criterio, i livelli di linguaggio. Per alcuni le parole più colorite sono da evitare, mentre per altri vivacizzano la conversazione. Senza parlare dei linguaggi molto codificati degli adolescenti, che possono essere percepiti come aggressivi, mentre non sono altro che un modo di esprimersi gergale di un gruppo che cerca di definirsi attraverso la singolarità. Nei diversi strati di ogni società, le modalità del linguaggio rappresentano convenzioni che permettono a ciascuno di sentirsi integrato in un gruppo. Il bisogno di riconoscimento e di integrazione è fondamentale per l’autostima, e sentirsi esclusi da un gruppo può generare un senso di colpa.

Anche alcune convenzioni, di cui non sempre abbiamo verificato la pertinenza, finiscono per condizionare il nostro rapporto con ciò che è giusto e ciò che non lo è. Sebbene oggi tali rappresentazioni siano comunque rimesse in discussione, fino a poco tempo fa una donna aveva il dovere di essere riservata, materna e dolce, e un uomo forte e protettivo. Allo stesso modo, un maschietto non piangeva, una bambina giocava con le bambole e vestiva di rosa, un ragazzo giocava a pallone e con le macchinine... Per fortuna alcune di queste rappresentazioni sono scomparse, ma solo per essere sostituite da altre. Una donna di oggi dev’essere attiva, impegnata nella vita professionale, sportiva, ma anche e comunque dolce e materna.

Possiamo constatare quanto tali convinzioni siano fluide, mutevoli, soggette alla cultura del momento, purtuttavia esse partecipano in modo più o meno cosciente alle nostre valutazioni.

C’è un’altra credenza molto radicata, sebbene si possa regolarmente osservare anche il contrario: vi sarebbe un’età per morire, e un’altra in cui non sarebbe normale morire. Da qui un sentimento di ingiustizia che ci spinge a cercare un colpevole, quali che siano le circostanze del decesso.

Altri esempi: una persona non parla in una riunione perché evidentemente non ha nulla da dire, o magari è perfino sciocca o incompetente! Oppure un individuo affabile e colto che prende facilmente la parola è con ogni probabilità una persona orgogliosa che mira a ostentare il suo sapere! Pur essendo queste immagini caricaturali, possiamo trovare nel nostro rapporto con gli altri giudizi di valore basati su un tipo analogo di convinzioni che probabilmente trovano poco riscontro nella realtà.

Prudenza! Evitiamo di giudicare, limitandoci a osservare semplicemente i nostri difetti con benevolenza, al fine di trasformarli in dolcezza...

Data di Pubblicazione: 20 febbraio 2020

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