Gli avi presso la tribù degli Eng
Gli avi presso la tribù degli Eng
Dopo ore di marcia, io e gli operatori, con l’aiuto dei quali sto tentando di realizzare un documentario sulle tradizioni animiste del Myanmar, raggiungiamo il villaggio degli Eng, sprofondato nella fitta foresta birmana. Gli Eng sono un sottogruppo del clan dei Wa-Palung, a sua volta appartenente all’etnia Mon-Khmer, e vivono nella parte più a est dello Stato Shan, al confine tra il Myanmar e il Laos. Gli Eng sono una piccola minoranza etnica in un’area geografica popolata prevalentemente da Akha, Lahu e Gon Shan. Nella vasta foresta dello Eastern Shan State, gli Eng sono i soli ad aver conservato l’antico culto animista: le altre tribù sono state convertite, chi al cattolicesimo, chi al buddhismo.
«Gli Eng sono una rara minoranza etnica e non sono mai stai invitati allo Union Day Celebration. Gli Eng non hanno sviluppato alcun tipo di economia, sono una delle minoranze meno progredite e stanno lentamente scomparendo, al pari dei Lu, dei Lam e degli Yo. È necessario prendere dei provvedimenti per registrare e documentare l’esistenza di queste minoranze altrimenti, nel giro di tre, quattro anni, niente rimarrà di loro».
Una delle prime presenze a colpire la nostra attenzione è una donna con una profonda ferita alla gamba destra. La piaga non sanguina, è riempita di ovatta ed è talmente incavata da essere impressionante a vedersi. La donna giace febbricitante vicino al pozzo, l’aria intorno a lei è piena di mosche. Nelle immediate vicinanze, dei cani riposano al sole e un gruppo di bambini gioca con dei bastoncini di legno, indossano solo la giacca di cotone nero, tipica del costume Eng, e al di sotto di essa i culetti sono nudi. I cani sono animali sacri per gli Eng, ve ne sono ovunque nel villaggio.
Quando intervisto lo sciamano, capo tribù, non posso evitare di chiedergli notizie della donna ferita. Cosa intende fare lo sciamano guaritore per aiutarla?
Lui mi risponde accompagnandomi nella capanna che sorge al centro del villaggio, la più grande. All’interno vi è un enorme tamburo, appeso al soffitto a mezzo di grosse corde. Le videocamere non possono entrare e neppure le macchine fotografiche: siamo costretti a sospendere qualsiasi ripresa.
«Io suonerò il tamburo» dice lo sciamano rispondendo alle mie domande di poc’anzi «e chiamerò a raccolta le schiere di geni e spiriti che dominano il passato e il futuro di quella donna».
«Le schiere di geni e spiriti?» chiedo io.
«Sì, gli antenati della donna ferita e della nostra tribù» precisa lui. «Ho fatto la stessa cosa un mese fa per mia moglie, dieci giorni prima che morisse. A volte si rende giustizia agli avi con la vita, a volte con la malattia e il dolore, altre volte solo con la morte».
Immagino il suono del tamburo e la sua eco riecheggiare tra le colline ricoperte dalla fitta foresta che circondano la piccola valle dove sorge il villaggio degli Eng e penso alle parole di Sant'Agostino: «I morti non sono assenti, ma invisibili». Tuttavia, per noi della troupe è impossibile non offrirci di ritornare al villaggio il giorno seguente con una scorta di antibiotici. Lo sciamano risponde arrendevolmente che accetterà le medicine. La tribù degli Eng è composta da quarantacinque anime che da sole conservano una tradizione e un’immaginazione completamente persa tutt’intorno al loro villaggio; la loro sopravvivenza e il loro equilibrio poggiano su niente. È difficile evitare di contribuire a finirli, anche se solo nel tentativo di salvarli, registrali e documentarli.
Martin, il mio interprete, ha bisogno di un secondo interprete per tradurre lo sciamano: gli Eng, infatti, parlano un dialetto Mon che per Martin è incomprensibile, anche se lui è nato nello stato Shan, a pochi chilometri di distanza dalla foresta dove sorge il villaggio degli Eng.
«Chiamare a raccolta gli spiriti degli avi suonando il tamburo è importante» mi spiega lo sciamano. La sua filosofia è cristallina: quando parli con gli spiriti, vedi e sai che ciò che ti accade serve a rendere giustizia alla tribù. Se non c’è giustizia c’è paura, vivi come un animale braccato e dunque sei malato.
Nella filosofia animista dello sciamano Eng, il male è la paura e la presenza degli avi è l'antidoto alla paura. Parlando ancora con lui, capisco anche che la sua visione della paura è transgenerazionale: tutta la paura che gli avi non hanno saputo affrontare e risolvere nel corso della loro vita viene trasmessa ai discendenti e, fino a che non venga debellata, cresce di generazione in generazione. Affrontare la paura, per esempio la paura causata da una profonda ferita o da una malattia, è rendere giustizia agli avi.
La psicologia transgenerazionale e le costellazioni familiari
Che abbia matrice più psicologica o filosofica, più antropologica o biologica, l’approccio transgenerazionale alla psiche conduce comunque e in modo forte allo sciamanismo, ai culti degli avi e ai riti dell’estasi.
Per approccio transgenerazionale si intende la volontà di considerare il progetto di vita di un individuo come frutto dei compiti di compensazione del destino familiare che egli ha ricevuto fin dal momento del suo concepimento. Se prima della sua nascita la madre ha subito degli aborti, il figlio riceve anche gli incarichi che i genitori avevano proiettato sul figlio non nato.
Il concetto di progetto di vita, definito da alcuni autori “progetto senso” è un tema centrale dell’approccio transgenerazionale.
Secondo la psicologia transgenerazionale, l’influsso degli avi sul nostro progetto di vita è evidente. Un figlio non viene concepito, atteso e generato solo per se stesso, ma per obbedire a sogni e desideri, il più delle volte inespressi o irrealizzati, del clan familiare. I genitori proiettano sul figlio sogni e aspettative talvolta inconsce.
Il mancato adempimento delle missioni di compensazione assegnate dal clan familiare crea un conflitto interiore che spinge l’individuo a manifestare una sorta di autoboicottaggio che può provocargli danni ingenti. L’impossibilità di godere i frutti del proprio benessere economico o la difficoltà a realizzare un benessere economico, una bocciatura a un concorso importante, una rinuncia agli studi, problemi di inserimento nel mondo del lavoro, “fatalità” che inducono a compiere investimenti sbagliati, portano a fallimenti economici, fanno sposare il partner che non si ama o creano difficoltà ai tentativi di formare una famiglia e di generare dei figli, possono essere visti come tanti esempi di autoboicottaggio.
In generale, si potrebbe dire che i torti subiti da un avo possono divenire nel discendente delle missioni riparatrici, i fallimenti possono trasformarsi nell’incapacità di creare relazioni e condizioni proficue, i traumi in depressioni, le sofferenze in carenza di fiducia nelle proprie possibilità e in quelle della vita, mentre lo stress accumulato di generazione in generazione può materializzarsi nelle malattia fisica e nell’impasse psicologica.
Particolarmente pericolosi possono essere gli effetti che riguardano eventi traumatici rimasti segreti, dei quali non si è mai osato parlare in famiglia: tradimenti inconfessati, figli concepiti al di fuori del matrimonio o figli rinnegati, delitti, condanne segrete, filiazioni nascoste.
Gli autori del transgenerazionale hanno messo a punto svariati sistemi che permettono di prendere consapevolezza della programmazione inconscia trasmessa dagli avi e di deprogrammarla, compensando le missioni riparatrici avute in eredità non più con l’autoboicottaggio, bensì con la realizzazione piena del proprio progetto di vita più autentico.
Uno di questi sistemi è il disegno e la successiva elaborazione del proprio genogramma, una sorta di albero genealogico che pone in risalto il tipo di legame esistente tra i vari membri della famiglia. Un altro metodo, che ha avuto notevole successo, è quello delle Costellazioni Familiari messo a punto dal tedesco Bert Hellinger.
Nella pratica delle Costellazioni Familiari si ha un richiedente, o costellante, colui che vuole indagare il mondo dei propri avi; un gruppo di persone che si prestano a interpretare gli avi del richiedente, i cosiddetti rappresentanti; e un facilitatore, o costellatore immaginalista, che è colui che conduce il gruppo.
Il costellante chiede alle persone del gruppo di impersonare i suoi antenati, i suoi familiari e, a volte, altre persone molto significative della sua esistenza. Nel fare ciò egli colloca gli attori sulla scena del dramma, lasciandoli poi liberi di muoversi. La posizione che i rappresentanti assumono sulla scena e i gesti che compiono gli uni rispetto agli altri sono elementi fondamentali per il facilitatore, che interviene nella costellazione - aiutandone il processo di rivelazione - con delle precise domande rivolte ai rappresentanti e al costellante stesso. Ad esempio, nel caso in cui il costellante abbia collocato la persona che lo rappresenta lontano dagli altri familiari e di spalle rispetto a questi ultimi, il costellatore potrebbe chiedergli: «Perché sei così lontano dalla tua famiglia, perché guardi al di fuori di essa? Che cosa stai vedendo?»
Alcuni facilitatoti si soffermano a lungo nel dialogo ritenendolo elemento di grande importanza, mentre altri, all’opposto, si limitano all’osservazione dei movimenti corporei dei partecipanti, riservandosi di farli notare al costellante in un secondo tempo: in tal caso, la costellazione si svolge in modo del tutto silente.
La psicologia transgenerazionale e le costellazioni familiari ad approccio immaginale
Nella pratica delle costellazioni familiari ad approccio immaginale "evochiamo” gli avi e li facciamo vivere sulla scena di uno psicodramma.
Come ben conoscevano gli antichi, la felicità non fa storia: la natura della psiche è tragica. Ma l’essenza della tragedia che gli avi ci regalano, svelando - grazie allo psicodramma - le loro gesta senza tempo, è poetica. Ed è la poesia che, alla fine, redime dalla paura.
L’approccio immaginale, che viene dalla psicologia archetipica di Hillman e dalla visione del suo maestro, C.G. Jung, applicato alle costellazioni familiari punta a dare al dramma che gli avi portano sulla scena una dimensione epica che li riscatta.
Nell’uscire dal carattere individuale della nostra storia, nell’accedere a una dimensione mitica, vi è una trasformazione della paura e dell’ansia in una sorta di forza, una specie di ruggito. E tanto più grande era l’ansia, tanto più potente è il ruggito.
Le vicende occorse agli avi sono registrate nella memoria del clan familiare in modi simbolici. Questi simboli sono energie, vincoli emotivi che, in un certo senso, programmano il progetto di vita dei discendenti. In altre parole, gli eventi del passato vengono recepiti in senso simbolico come forze ricorrenti, capaci persino di potenziarsi passando di generazione in generazione. La visione immaginale dell’evento come simbolo consente di trasportare l'evento stesso a un’altezza epica, mitica e gloriosa, sull’Olimpo, luogo degli dèi, o sul Monte Popa dimora dei Nat, gli dèi del pantheon popolare birmano.
Così, una fortuna mancata, una passione tradita, un desiderio irrealizzato, una fragilità caratteriale, un abbandono subito, una vendetta incompiuta, un intrigo, una verità agognata divengono, quasi per magia, la Grande Fortuna Mancata, la Passione, il Tradimento, la Concupiscenza, la Dolcezza, l’Abbandono, la Vendetta, la Sincerità, l’Intrigo mitico. A mezzo della visione immaginale l’individuo eleva se stesso a un piano eroico e mitico, al di là del senso comune della colpa e del peccato, riscattandosi. E grazie a questo riscatto che ciascuno può scoprirsi guarito dal bisogno di aderire all’autoboicottaggio e trovare altre vie - quelle dell’autorealizzazione - per onorare i propri avi.
L’ansia vissuta, assurgendo alla dimensione mitica, si trasvaluta e altrettanto accade al significato dell’esperienza, tanto che i nostri disagi, i nostri limiti, disturbi e difficoltà si mostrano come i migliori eventi che ci siano mai capitati, fonte di forza e ispirazione.
Il compito di chi mette in scena una costellazione in chiave immaginale è nobilitare le nevrosi ricevute in eredità dal clan familiare. Esse infatti sono demoni nel senso di daimon, spiriti, dèi, numi, eidola, temi mitologici, e hanno bisogno di essere riconosciute: se ciò avviene, si trasformano nei nostri più potenti alleati.
Durante lo svolgersi dello psicodramma i rappresentanti, impersonando gli avi, ne evocano le emozioni così come esse sono state registrate nella memoria del clan familiare e tramandate. Il conduttore assiste al dramma familiare cercando di immedesimarsi in quello stato di equanimità, assenza di giudizio e apertura che forse nessuno ha mai definito meglio degli yogin tantrici: lo stato naturale. Si tratta di un modo d’essere che lo yogin e sciamano Tilopa ritiene raggiungibile a condizione di «non produrre sforzo, non pensare, non riflettere, non analizzare, non ricordare, non porre alcuna intenzionalità nella pratica, ma non smettere di praticare al fine di ottenere ciò che non è da ottenere»; che la yoghini Ma Gcig celebra nei suoi Canti: «Lode a quello stato che trascende ogni considerazione oggettiva, dimensione pura, inesprimibile, inimmaginabile, che va oltre il pensiero», e che Yeshe Tsogyel, la Danzatrice del Cielo, associa alla piena vittoria sull’ansia, sulla paura e su tutti i loro demoni, quando afferma che permanendo nello stato naturale, lei stessa diviene capace di andare ovunque senza paura.
Come la psicogenealogia e le costellazioni familiari hanno radici che si intrecciano allo sciamanismo e ai culti animisti, così la conduzione delle costellazioni familiari affonda nel regno della meditazione; gli operatori che propongono le costellazioni familiari hanno generalmente dimestichezza con le pratiche meditative.
Un abile conduttore osserva i gesti dei partecipanti che impersonano gli avi e ne ascolta le frasi con attenzione neutrale, pronto a enfatizzare quei gesti e quelle affermazioni destinate a nobilitare le emozioni in gioco. Per esempio, l’inchinarsi di un figlio di fronte a un padre o una richiesta di perdono da parte di un padre a un figlio vengono colte e sottolineate dal conduttore fino a che l’emozione che esprimono sia così forte e chiara da plasmare l’atmosfera dello psicodramma e trasportarne le vicende dalla dimensione storico-individuale a quella mitico-universale.
Colui che ha chiesto di mettere in scena la costellazione assiste a questa trasposizione e se ne sente innalzato. Qualunque sia la storia che aveva da raccontare, quale che sia il passato che gli sta alle spalle, esso diviene, nel suo sentire, un solido piedistallo, un trono sul quale la sua vita può reggersi e innalzarsi.
Ecco che allora i nostri avi non ci stanno più sulle spalle come misteriosi sacchi da trasportare, ma divengono l’humus da cui traiamo il nutrimento, quali che siano la loro storia, i fatti che gli sono attribuiti e le emozioni che vi sono associate.
La differenza tra l’avere un “passato che pesa” e un “passato che sostiene” si può misurare anche in termini di ansia. Il'passato che pesa” o il “passato che non c’è”, il non detto, il trascurato, il passato rimosso, ci fanno sentire “staccati dal ramo”, in balia del vento. Il “passato che sostiene” ci consente invece l’intera percezione dell’albero da cui proveniamo, ci fa sentire un senso di continuità con le radici, ci àncora alla terra, nobilitando la nostra esperienza.
Data di Pubblicazione: 30 settembre 2017