SPIRITUALITÀ ED ESOTERISMO

Un racconto esperienziale: Il nido di pietra

Un racconto esperienziale: Il nido di pietra

L'incontro con il Sadhu a Rishikesk: scopri la pace e la gioia nelle sue parole piene di saggezza leggendo l'anteprima del libro di Enrica Bortolazzi.

Il nido di pietra

Nei piccoli vicoli di Rishikesh si aggirano guardinghi Sadhu dalle vesti arancioni e dagli occhi di fuoco. Portano legni nodosi per accompagnare il cammino e a volte, se devoti a Shiva, un lungo bastone con un tridente che rappresenta la divinità indù. Camminano sulla terra e nella polvere con l’indifferenza di coloro che hanno visto un altro mondo e faticano a tornare in questo. Solo i loro occhi raccontano la visione divina.

Ce ne sono molti di Sadhu a Rishikesh, la Madre Ganga li attira a sé come il miele; davanti a lei i Sadhu si inchinano e meditano ogni giorno sgranando la collana di semi di rudraksha, pianta sacra che rappresenta la capacità di Shiva di vedere oltre il visibile.

È ad uno di loro che, aiutata da un amico indiano, chiedo di incontrare un Sadhu che mi possa parlare della luce che lo avvolge, per aiutarmi a penetrare il segreto di tanta serenità; ecco allora piccoli cenni del capo e occhi rivolti verso la cima della montagna ad indicare un percorso immaginario. Mi raccontano di un uomo immerso da quattordici anni in profonda meditazione, da poco uscito dal grande silenzio, che abita sulla cima della montagna. Il sentiero è indicato da alcuni alberi; prima bisogna salire, sempre salire poi, ad un certo punto, dietro un grande pipai ci si dirige verso un ruscello, se ne segue il corso e, in una piccola foresta di papaya, si imbocca un sentiero pieno di rovi alla fine del quale c’è la grotta che ospita il Sadhu.

Parto. Indosso un paio di jeans sdruciti e una canottiera bianca con il disegno di un serafico Buddha; i miei capelli, schiariti dal sole di quest’estate torrida, sono impastati dalla polvere che mi avvolge mentre cammino lungo il sacro fiume. Nel corpo percepisco forte l’energia dell’estate indiana e la vibrazione familiare di essere a casa: mi succede ogni volta che vengo in questa terra, come se qui mi riappropriassi di qualcosa che da sempre mi appartiene.

E una salita impervia, il respiro a tratti mi manca, il caldo è soffocante, i vestiti mi si incollano alla pelle, i rovi mi graffiano le braccia e le gambe. Mi sembra di non arrivare mai. Nel profondo silenzio della foresta solo il canto lontano di un uccello squarcia l’aria. Dietro ogni albero possente la natura è piena di suoni. Il sole sbuca a tratti tra le fronde degli alberi e brucia la pelle, piccole zanzare si inebriano del mio sangue.

La salita è infinita, una parte di me vorrebbe tornare a valle nella piccola Guest House che mi ospita e non cercare altro, ma non mi è mai possibile rinunciare ad andare nei luoghi dai quali mi sento attratta. La forza del vento mi ha da sempre spinta in avanti senza darmi la possibilità di voltarmi indietro per tornare sui miei passi.

E allora salgo sapendo che troverò qualcuno che devo incontrare e, all'improvviso, come un’apparizione fuori dallo spazio, vedo una grotta, una fenditura della montagna che non avrei notato se non ne fossi stata alla ricerca. Davanti, in un piccolo giardino intriso di foresta, alcuni alberi intrecciano le loro fronde. Piccoli uccelli variopinti saltellano da un ramo all’altro. Tutt’intorno solo silenzio e pace.

Entro timidamente come se stessi violando un luogo segreto, mi sento un’intrusa che si affaccia in un luogo che non le appartiene. Ho le braccia e le gambe segnate dai rovi, l’arsura mi attanaglia la gola, sento la fatica della salita pesare sulle gambe eppure, per un attimo, provo una gioia sconfinata, la felicità della bimba che scopre il mondo.

Il Sadhu

Davanti a me un piccolo fuoco fatto di sterpaglie e, dietro la spirale dell’incenso che sale verso l’alto, c’è un uomo seduto a gambe incrociate nella posizione del loto. Ha lunghi capelli arrotolati come serpenti, un corpo agile e gli occhi chiusi. Il suo respiro è impercettibile, pare venire da lontano.

Mi siedo in un angolo per occupare meno spazio, assorbo il silenzio e chiudo gli occhi. Passano minuti che non riesco a quantificare, il tempo non appartiene a questo luogo. Apro gli occhi, il Sadhu mi sta osservando, il suo sguardo è intenso, come se contenesse l’essenza di ciò che ha visto in tutti questi anni.

Non sapendo se mi comprenderà e se sarà possibile intenderci con la lingua degli uomini, abbozzo qualche parola in inglese; gli spiego cosa vado cercando, ma forse non lo so più. In India si dice che, alla presenza delle persone illuminate, le domande si sfaldano perché non ce n’è più bisogno. Il silenzio dell’incontro contiene già tutte le risposte.

Passano lunghi attimi, non penso mi abbia compreso, accenno un sorriso, ma lui mi risponde nell’inglese tipico di colui che ha studiato. Mi dice che fino ai trent’anni ha fatto parte del mondo, si è istruito, ha viaggiato lungo le strade dell’India, ha letto i libri sapienziali alla ricerca di qualcosa che non ha mai trovato.

Poi, mosso da una sete che non si spegneva, è andato al Kumbha Mela, il grande festival dei Sadhu e dei devoti che si tiene in luoghi diversi dell’India ogni dodici anni; è il festival più grande di tutto il Paese, la gente arriva da ogni dove con una grande devozione che la porta a purificarsi immergendosi nei tre fiumi sacri e recitando preghiere e mantra antichi. Vengono da ogni angolo dell’India, sulla testa portano grandi sacelli che contengono il loro mondo; spostano la loro vita come in un grande esodo: vecchi, bimbi appena nati, giovani pieni di futuro, tutti con un grande sogno.

Lì, confuso nella moltitudine di un’umanità in movimento, ha incontrato un vecchio Sadhu dalle parole piene di saggezza e l’ha seguito. Hanno viaggiato a lungo, calpestato la polvere e vissuto in grande povertà, ma sempre c’era una stella che indicava loro il cammino.

Il lungo viaggio si è concluso alle porte di Rishikesk, al Nord, sotto un grande albero intriso di divinità. Lì il suo Maestro ha chiuso gli occhi per non riaprirli più, lasciando il corpo come se dormisse. A lui non è rimasto null’altro che continuare a viaggiare, ma dentro se stesso, stando fermo in un nido di pietra: è salito in questa grotta e qui si è fermato.

Le parole sono centellinate, tra di loro i secondi si fanno spazio.

«In questa grotta - dice - possiedo ogni cosa. Nella meditazione e nel silenzio trovo tutto ciò che mi serve e soprattutto posso finalmente udire la voce di Dio che mi parla. In questa grotta posso vedere qualsiasi cosa e spostarmi in qualsiasi luogo. Quando Dio deciderà che è il momento di lasciare questo corpo, lo lascerò come quando si abbandona un vestito usato. Il tempo tra questi due attimi è pura felicità».

Chiedo se posso fare qualche ripresa per ricordare le sue parole, la mia piccola telecamera, insieme alla macchina fotografica, inseparabili compagne di viaggio, fremono per uscire dalla sacca nella quale le ho riposte.

Mi dice di provare a usarla, ma che non crede che la sua voce potrà essere registrata. «La voce è troppo importante - mi dice - le parole hanno una frequenza e possono muovere mondi dentro e fuori di noi. In essa sono contenuti i suoni dell’Universo intero». Per questo recita a lungo i mantra, la ripetizione costante delle sillabe sacre. Dei mantra si nutre come di un cibo vitale. «I mantra - dice - sono parole di potere, possono modificare la realtà, possono far piovere, nutrirci, guarire. Sono medicine».

Sorride dolcemente ai miei tentativi di far funzionare la telecamera che, inspiegabilmente, non accenna a funzionare. Nulla verrà ripreso, la sua voce non resterà incisa nella telecamera, porterò con me solo alcune fotografie e una manciata di parole scarabocchiate su un quaderno.

La caverna ci avvolge come un piccolo nido di pietra, le parole vengono pronunciate con gravità come se, per far uscire ognuna di loro, fosse necessario un grande lavoro per soppesarle con cura e ridurle all’essenziale.

La natura ci avvolge come in un bozzolo. «Da lei arriva - dice - tutto ciò di cui abbiamo bisogno. In Occidente - aggiunge - esiste un luogo per ogni cosa, ogni animale ha il suo spazio, c’è il posto per il cane, per le mucche, per i pavoni. In India tutto è insieme, tutto convive come in un immenso caleidoscopio, tutto è Uno. Gli animali della foresta sono i miei figli. Io sono parte di questa foresta. Quando siedo silenzioso in questa grotta, sono dentro ogni cosa che mi circonda. La vita e la morte sono la stessa cosa. Conosco il momento in cui morirò, sarà tra ventun anni. Chiuderò piano gli occhi e non sarò più in questo mondo».

Chiedo se leggere ci aiuti a comprendere e quali libri abbia con sé in questo luogo. Sorride appena, mi indica un vecchio testo sgualcito in un angolo, la Bhagavad Gita, la conserva preziosamente perché l’ha ricevuta in dono dal vecchio Maestro.

Dice che l’unico libro che conta davvero è la vita, saperla leggere nelle sue sfumature, riuscire ad andare oltre ciò che è visibile. E rendersi conto che il momento presente racchiude già tutto ciò di cui abbiamo bisogno. La resa all’Uno è il grande potere della vita.

Abbassa gli occhi, troppe parole sono state spese. «E tempo di tornare al mio silenzio, - mi dice - vieni domani che ti devo mostrare una cosa».

Un sogno ricorrente

La discesa è più rapida, il calore meno opprimente, l’aria si rinfresca avvicinandosi al tramonto.

La mia mente è quieta come se avessi percorso un lungo viaggio e non sapessi bene dove sono. Il rientro a valle, accompagnata dalle ombre lunghe della sera, è rotto solo dai rumori della foresta.

C’è stato un lungo periodo della mia vita nel quale ho fatto un sogno ricorrente: ero una piccola bimba dai lunghi occhi a mandorla e dal corpo sottile, mi trovavo nella foresta seguita da mia madre e da un fratellino, correvamo veloci per incontrare il nonno che doveva dirmi una cosa importante prima che la morte lo accogliesse tra le sue braccia. Arrivavo trafelata in una piccola radura nel mezzo della quale sorgeva un tempietto di pietra consumato dal tempo dove lui giaceva riverso, appena morto.

Restava, ad ogni risveglio, la sensazione di tristezza, del non avere potuto raccogliere quelle parole preziose a me destinate. Il nonno dalla lunga barba bianca portava via con sé il suo messaggio rendendo orfano il mio cuore.

Da anni il sogno più volte ripetuto non si era più ripresentato, ma ne conservavo in me ogni dettaglio, come se l’avessi appena vissuto.

La mattina successiva al mio incontro con il Sadhu, il sole splende forte come se l’intervallo della notte avesse scaldato ancora di più i suoi raggi. Parto per il mio appuntamento sulla montagna.

La salita è sempre ripida, i cespugli mi graffiano, ma la curiosità è più forte di ogni disagio. La notte è stata inquieta, qualcosa si è smosso dentro di me agitando le fondamenta di un sistema ben costruito.

Il Sadhu siede fuori dalla grotta su un masso levigato dal vento. In lui tutto è connesso a ciò che lo circonda, la sua attenzione è totale, la sua Presenza riempie lo spazio intorno a lui. Il suo sguardo penetra oltre gli oggetti, sento che può leggere ogni mio pensiero.

«Seguimi, ti devo mostrare un luogo» dice.

I suoi passi nella foresta sono agili e, con la grazia di un leopardo, scivola tra gli alberi che accompagnano la nostra salita.

C’è un piccolo strapiombo, un terrazzino di pietra e terra protegge l’ingresso di una grotta. Entriamo. È molto grande, da qualche fessura entra la luce che la rende luminosa, è completamente vuota se non fosse per un piccolo giaciglio di foglie secche e qualche straccio arrotolato.

Sotto, in mezzo alla foresta, si snoda placido il fiume sacro dell'lndia, la Madre di tutti i fiumi: il Gange. Da questa distanza sembra un piccolo corso d’acqua disegnato su di una mappa.

Meditare per il tempo necessario

Il Sadhu mi dice che dovrei fermarmi qui e meditare per il tempo necessario; solo così potrei ripartire e tutto ciò che devo sapere, nel silenzio di questa grotta, mi verrebbe trasmesso a beneficio mio e di tutti coloro che dovranno attìngere da questa fonte. «L’India, luogo della tua Anima, avrà bisogno di te» aggiunge.

Il sole mi brucia le spalle, sento che sta succedendo qualcosa proprio adesso, ma non so cosa sia. La mia parte razionale rifiuta di immaginarmi lì, rifiuta quest’uomo che continua a leggere dentro di me come un libro aperto, rifiuta quest’India cosi assoluta, questa meraviglia insensata, queste indicazioni di vita che non fanno parte del mio mondo.

I nostri occhi si incrociano, la mia mente si incaglia e cozza contro un muro. Accanto a me il Sadhu sorride con gli occhi illuminati dal sole; forse aspettavo da lungo tempo queste sue parole che convivono con la mia voglia di fuggire dal mare in tempesta che mi si agita dentro. Il sogno e la realtà stanno per fondersi in questa foresta immersa nella pace.

«Ti devo mostrare un’altra cosa» dice poi.

Scendiamo lungo il crinale della montagna tra alberi imponenti e fitti cespugli che rendono difficoltoso il nostro passaggio. Arriviamo in una piccola radura abbracciata da alberi pieni di linfa, tra i rami il sole fa capolino illuminando questo guscio luminoso.

Sento dentro qualcosa che si agita, il mio cuore per un attimo rallenta la sua corsa: in mezzo alla piccola radura c’è un tempietto di pietra rosicchiato dal tempo. E lo stesso tempio del sogno ricorrente che ha accompagnato per anni le mie notti! Attonita ne riconosco i contorni e la luce della radura. Il sogno si trasforma in realtà visibile e la mia mente, incapace di spiegazioni, è una giostra che gira troppo veloce.

Una foto ricordo suggellerà il bagliore di questo luogo, una piccola cicatrice sulla spalla il calore del fuoco di quell’incontro.

Data di Pubblicazione: 14 aprile 2021

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