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Alla ricerca della Pura Vida!
"Ti capita di sentirti solo pur essendo in mezzo ad altre persone?"
Non risposi subito. Era partito come un semplice gioco, ma quelle domande stavano diventando insidiose. Continuai a guardare per terra, in mezzo alle gambe. Studiai le trame del viale asfaltato sotto alle mie mani intrecciate. E quando il mio silenzio si protrasse oltre un'attesa ragionevole, spostai nervosamente un rametto con la punta della scarpa.
"Mmm..." riuscii solo a dire.
Elena alzò lo sguardo dal cellulare. Non mi voltai, però sentivo i suoi occhi addosso. Il cuore accelerò un po' il battito. Essere osservato dalla persona che ti piace è un incubo, e al tempo stesso un sogno che diventa realtà e che vorresti anche diventasse abitudine.
"Alessio, non per metterti fretta, ma non puoi prenderti dieci minuti per ogni risposta" disse. Mi voltai. Sorrideva, il cellulare tra le mani. Si era tolta le scarpe ed era a piedi nudi, seduta sulla panchina verde con le gambe incrociate e la schiena dritta, in una posa piena di grazia che aveva acquisito in ore e ore di yoga. Ne parlava spesso, di quella sua passione. Una volta aveva persino detto che lo yoga le aveva salvato la vita, ma eravamo insieme ad altre persone e così non avevo osato chiederle cosa intendesse nello specifico.
"Qual è la domanda, di preciso?" chiesi sfregandomi nervosamente i palmi delle mani. Elena tornò a guardare lo schermo del cellulare.
"Ti capita di sentirti solo pur essendo in mezzo ad altre persone: spesso, a volte o mai."
"Be, a chi non capita al giorno d'oggi?" temporeggiai.
"Alessio..."
"Voglio dire, siamo tanti, abbiamo tutto, eppure..."
Elena lasciò cadere la testa verso il basso in un teatrale gesto di esasperazione. Mi strappò una risata.
"Va bene, va bene" risposi aprendo le mani in segno di resa. "Direi che mi capita spesso."
La sua testa tornò alta, il collo dritto.
"Oh" esclamò lei segnando la risposta sul cellulare. "Prossima domanda: reputi di essere una persona che pensa troppo, sì o no?"
Feci una smorfia, aprii nuovamente le mani, scossi leggerissimamente la testa.
"Direi che questo è un “sì” grosso come una casa" intervenne Elena premendo con decisione sullo schermo. E ridemmo, stavolta insieme.
Eravamo in pausa pranzo, seduti davanti al palazzo in cui lavoravamo. Era una splendida giornata di metà agosto e la città sembrava aver riempito il vuoto lasciato da chi era già andato in ferie con mille colori nuovi e tanta, tanta luce. Mi piaceva pensare che fosse una ricompensa per noi che eravamo ancora lì, a boccheggiare in mezzo al cemento bollente.
"Posso chiederti dove hai trovato questo test?" domandai grattandomi la testa.
Tutto era partito quando avevamo finito di mangiare, io un panino e lei un'insalata. Ci conoscevamo solo da qualche mese, ma avevamo preso l'abitudine di pranzare insieme.
Se faceva bello, compravamo sempre qualcosa d’asporto e mangiavamo fuori: panchine, parchi, le scale dell'ingresso o il terrazzino del palazzo in cui si trovava il nostro ufficio.
Quel giorno, finito il pranzo, Elena se n'era venuta fuori dicendo: "Ti faccio un test, dai". Ed era partita con le domande.
"L'ho trovato su Internet. È un test psicologico per determinare la propria personalità."
Rivolsi a Elena un'occhiata perplessa.
"Perché mi guardi così?" chiese sulla difensiva, trattenendo un sorriso.
"Niente. Un test psicologico, hai detto? Sei sicura?"
Il suo volto si riempì di finta indignazione. Ora sorrideva, ed era bellissima.
"Guarda che lo ha inventato uno psicologo, mica è una sciocchezza!"
"Uno psicologo?"
"Sì, uno psicologo americano. O inglese, non ricordo."
"E come si chiama?"
Lei non rispose e io risi. Mi diede un colpetto sul braccio.
"Andiamo avanti, che è meglio. Stai facendo di tutto per sabotare il test."
"Ma non è vero..."
"Sei più bravo a esprimere i tuoi sentimenti scrivendo o parlando?" proseguì Elena con la testa china sullo schermo.
"Scrivendo."
"Okay. Quando sei arrabbiato:
a) esprimi i motivi della tua rabbia alle persone che hai intorno;
b) ti tieni tutto dentro perché ritieni che la rabbia sia una questione tutta tua;
c) non ci pensi e dopo un po' la rabbia passa."
"La seconda."
"Stai partecipando a una visita guidata in un museo:
a) stai in fondo al gruppo per osservare le opere d’arte da solo;
b) stai nel mezzo del gruppo per non perderti una parola di quello che dice la guida;
c) sei in prima fila e conversi con la guida, facendo domande e osservazioni."
"La prima, la a."
"Come definiresti le tue relazioni con l’altro sesso: ottime, nella media, pessime."
Mi fermai, di nuovo. Era imbarazzante dire la verità: avevo avuto delle fidanzate, delle frequentazioni per lo più, ma ognuna di queste storie era rimasta intrappolata nella superficialità. Arrivato a ventinove anni, una parte di me pativa quella pressione esterna riservata a chi è ancora single, quella per cui trovare qualcuno col quale condividere la vita non è più un'opzione, ma una necessità; l’altra si era già convinta che non sarebbe successo in ogni caso, e che in fondo fosse meglio così.
Non mi vedevo fidanzato, né tantomeno genitore. Ero un solitario, convinto di essere destinato alla solitudine. E questa consapevolezza non mi rendeva particolarmente triste, né felice.
Poi avevo incontrato Elena e con lei era successo qualcosa a cui avevo smesso di credere da tempo: stavo sperimentando una di quelle cotte che solitamente ti prendi da adolescente. Da giovane, la vita mi aveva negato questa esperienza. Ero stato costretto a crescere in fretta e non avevo mai vissuto un innamoramento di quelli che puoi avere solo se sei leggero e spensierato, quelli che ti fanno sentire le farfalle nello stomaco, stupido e felice.
Mi capitava, a volte, di vedere giovani coppie innamorate, di osservare le promesse che si scambiavano con uno sguardo, di invidiare la loro illusoria certezza che la loro storia sarebbe durata per sempre. Io non avevo mai provato quella sensazione.
Quando Elena era entrata nella mia vita, però, uno spiraglio si era aperto anche per me. A volte mi stupivo di come mi sentissi in sua presenza. Era come se quella cotta adolescenziale, alla fine, l'avessi presa anche io, ma a quasi trent'anni.
"Alessio? Sei ancora qui con noi?" chiese Elena. Mi voltai di scatto, temendo che potesse in qualche modo leggere i miei pensieri. Mi guardava con la testa leggermente inclinata.
Ridacchiai imbarazzato e poi mentii.
"Nella media, direi."
Elena restò impassibile.
"Ti mette più di cattivo umore essere costretto a parlare pubblicamente davanti a tante persone oppure ascoltare una singola persona che ti racconta qualcosa di triste che le è successo?"
"La prima."
Si voltò a studiarmi e io aprii di nuovo le mani come a dire che quella era solo la verità.
"Sei fuori a cena con un gruppo di amici e noti che una persona è in disparte:
a) le fai una battuta ad alta voce per risollevarle il morale e coinvolgerla;
b) ti avvicini e le parli a bassa voce;
c) le sorridi e basta;
d) non fai niente perché certe persone vogliono solo essere lasciate in pace."
Ci pensai a lungo.
"La c, ma sarebbe bello essere il tipo di persona che risponde b."
Elena sorrise e selezionò la risposta. Aveva i denti piccoli, bianchi e ordinati. Gli occhi, invece, erano grandi e azzurri.
"Quante volte ti hanno detto che sei troppo serio: tante, poche, mai."
"Tante."
"Il silenzio ti mette a disagio: tanto, un po’, per niente."
"Se sono da solo, no. Se sono in compagnia, un po' sì."
"Mettiamo “un po'” allora. Poi... l’idea che le persone parlino di te ti fa piacere o ti mette a disagio?"
"Disagio."
"Immagina una giornata di relax: sei in compagnia di altre persone o sei da solo?"
Ci pensai per un paio di secondi.
"Da solo."
Lei ebbe un attimo di esitazione.
"Che succede?" chiesi, domandandomi cosa stesse pensando di me.
"Niente, niente! Trovi più interessante un bel film o un buon libro?"
"Un buon libro. Niente batte un buon libro."
"Preferisci ascoltare la musica con le cuffie o ad alto volume?"
"Non credo di aver mai messo la mia musica ad alto volume."
Elena si fermò.
"Perché? Non pensi che sia bello condividere ciò che ti piace con gli altri?"
"È una delle domande del test oppure è una tua curiosità?" chiesi.
Elena sorrise e si sistemò una ciocca dietro l'orecchio. Poi mi guardò, ancora in attesa di una mia risposta.
"Sicuramente le cuffie, comunque" dissi.
"E va bene. Ti capita di avere dei rimpianti per non aver fatto qualcosa che desideravi fare: spesso, a volte, mai."
Mi bloccai su quella domanda. Era un pensiero fisso che avevo da qualche tempo, forse perché quello era l’anno in cui avrei compiuto trent'anni e iniziavo a tirare le somme della mia vita.
"Non saprei. Chi non ha rimpianti?"
"Non si risponde alle domande con una domanda" disse Elena.
"Va bene. Direi... spesso."
"Addirittura?"
"Tu non hai rimpianti?" replicai.
Lei scrollò le spalle e guardò di nuovo il cielo.
"Per ora no, ma se resto qui a Milano troppo a lungo potrei averne" disse. Poi, dopo una breve pausa, fece una risatina, come se quella fosse solo una battuta. Ma non mi sembrò sincera. Non era la prima volta che faceva allusioni di quel tipo.
"Per risolvere un problema passi subito all’azione o butti giù un piano?" proseguì dopo essersi sistemata il braccialetto sul polso sinistro.
"Ci penso su finché il problema non si risolve da solo. O mi travolge."
"Dai!"
"Va bene, va bene. Butto giù un piano."
Elena andò avanti con le domande per qualche altro minuto. Ogni tanto mi fermavo a riflettere e lei mi diceva di rispondere e basta, senza pensarci troppo. Mi sembrava che quello fosse proprio il suo modo di prendere la vita: non farsi bloccare dal troppo riflettere, senza attese, cercando di trovare del buono in ogni giornata, ogni momento, e guardando sempre avanti.
Era appassionata di spiritualità orientale e una volta, una delle prime in cui ci eravamo fermati a parlare in pausa pranzo, le avevo chiesto cosa significasse “vivere zen”. Era un'espressione che mi capitava sempre più spesso di leggere, e avrei potuto cercare la risposta su Google, ma era così piacevole conversare con lei che sarei rimasto seduto sotto le luci pallide della mensa, davanti a quel tavolo di formica biancastro, per tutto il giorno e tutta la notte.
Lei mi aveva spiegato che vuol dire “essere spontanei senza sforzarsi di essere spontanei”. Mi era sembrata una descrizione perfetta della sua persona. Ed era ciò che più mi affascinava di Elena, perché io ero l'esatto opposto: ogni giorno indossavo una maschera e un costume per apparire come uno dei tanti, o meglio, per non apparire proprio.
Non lasciavo trapelare nulla che considerassi intimamente mio verso l'esterno, convinto che difficilmente questa apertura al mondo avrebbe portato a qualcosa di buono.
"Okay, ultima domanda. Con che frequenza piangi: molto spesso, spesso, ogni tanto, mai."
Mi bloccai di nuovo. Non volevo darle un'impressione sbagliata, ma non volevo neppure mentirle.
"Devo dire... mai."
Lei alzò un sopracciglio.
"Tu non piangi mai?"
Non risposi. Mi agitai sulla panchina alla ricerca della posizione giusta. La trovai appoggiandomi con i gomiti alle ginocchia, la schiena curva in avanti.
"Stai cercando di fare il duro per impressionarmi?" chiese Elena ridacchiando.
"Per niente. Non la trovo una cosa bella, però è la verità."
Avrei voluto aggiungere: “L'ultima volta che ho pianto ero un ragazzino, sono passati molti anni”. Ma non dissi nulla. Restai immobile, sapendo di avere il suo sguardo su di me. Mi misi gli occhiali da sole, intrecciai le mani.
Data di Pubblicazione: 7 marzo 2022