Ayahuasca Medicina - Anteprima del libro di Alan Shoemaker

La ricerca

Ventuno anni fa, sotto la pioggia battente, un gringo infradiciato si infilò al riparo sotto la tettoia di un negozio in Avenida Amazonas, nel centro di Quito. «Turista?» domandai. Stavamo così vicini che sarebbe stato imbarazzante rimanere in silenzio ancora per molto. Lui mi studiò per alcuni secondi prima di decidersi a parlare.

«No, sono dodici anni che vengo a Quito per un paio di mesi all’anno». Mi spiegò che lavorava come insegnante in Louisiana, ma ogni anno veniva a trascorrere due o tre mesi in Ecuador per cercare l’oro nelle Ande.

«E come sta andando?» chiesi.

«Sempre meglio. L’anno scorso ci sono arrivato vicinissimo... l’ho quasi trovato» esclamò in tono vivace.

«Che strana affermazione» pensai. «Quasi? Come fa a sapere di averlo quasi trovato?» gli chiesi.

«Ho una mappa!» dichiarò lui con orgoglio.

«Vorrei averla anch’io» pensai.

«E lei cosa fa qui?» mi domandò.

Non so perché mi venne fuori una risposta così dettagliata, ma mi ritrovai a spiegare a quell’insegnante e cercatore d’oro della Louisiana che ero lì in cerca di uno sciamano. Mi sentivo ridicolo a usare il termine “sciamano”, ma curandero, il nome corretto per indicare un guaritore in Sudamerica, è senza dubbio poco comprensibile al turista comune. Per di più, i gringos hanno chiamato i curanderos "sciamani” per cosi tanto tempo che ormai loro stessi, in molti casi, si definiscono così.

«Sono arrivato via terra tre mesi fa, attraversando il Messico, l'America Centrale e la Colombia, fino a raggiungere Quito. Ho viaggiato insieme a Roberto, che viene da Venice in California». Mi voltai verso il mio amico. «Roberto, questo è... come ha detto che si chiama?»

«Non l'ho detto, ma mi chiamo Joe» disse l’insegnante tendendo la mano.

Avevo conosciuto Roberto a Tucson un paio di mesi prima, quando si chiamava ancora Robert. Dovevo partecipare come fotografo a una spedizione in Amazzonia organizzata da lui. Delle sei persone che avrebbero dovuto formare il gruppo, l’unico presente all’appello ero io. Il mio primo incontro con Robert avvenne quando lui bussò alla porta della mia stanza d’albergo: aprii e mi trovai davanti un uomo con lunghi capelli biondo platino, impettito come un gallo, gli occhi grandi come due uova. «Tu devi essere Robert» dissi.

Lui levò in alto la mano destra, azionando il fischio di un’immaginaria locomotiva a vapore, ed emise un sonoro sbuffo. Dopo un rapido scambio di presentazioni, mi cambiò il nome: «Compare» disse, porgendomi il palmo per battere il cinque. Robert e io decidemmo di andare avanti con la spedizione, nonostante l’assenza del resto del gruppo. Nel corso dei due mesi successivi, viaggiando con lui, sentii pronunciare il mio nome, Alan, solo il minimo che bastava per non dimenticarlo. E quando varcammo il confine del Messico, anche lui si cambiò il nome. Da quel momento in poi divenne Roberto. «Paese che vai...» disse con un’alzata di spalle.

Joe, l’insegnante, tirò fuori il portafoglio dalla tasca posteriore e ne estrasse un biglietto da visita. «Non so chi sia» disse in tono strascicato. «Me l’hanno dato qualche mese fa e ce l’ho ancora. Non so nemmeno perché l’ho conservato. Forse perché dovevo darlo a lei. Comunque sia, ecco qui».

Mi piacque la sua riflessione sul fatto che doveva esserci un motivo per cui aveva conservato il biglietto, soprattutto considerando che era il 1992 e mancava ancora un anno alla pubblicazione della Profezia di Celestino, il classico new age che ha reso popolare il termine “sincronicità". Il biglietto era stampato a colori, con un elaborato logo nell angolo in alto a sinistra che raffigurava un uccello racchiuso dentro un cuore e un occhio con una candela accesa nella pupilla. Era il biglietto da visita del dottor Valentin Hampjes, «studioso di piante medicinali, psichiatra e neurologo».

«Dev’essere un giro di parole per suggerire che è uno sciamano» commentai, e ci facemmo una risatina. Poi mi infilai il biglietto nel taschino della camicia e, mentre la pioggia cominciava a diminuire, io e Joe ci dicemmo addio.

Non avrei mai pensato che il guaritore di cui andavo in cerca potesse avere un biglietto da visita. Forse era quella la mia "mappa”. Dopo tutte le bizzarre sincronicità che mi erano già accadute durante quel viaggio, non potevo certo far finta di nulla.

Sincronicità

Durante i miei viaggi insieme a Roberto cominciai a intravedere una trama di sincronicità - nozione introdotta da Jung per indicare una serie di coincidenze significative - che aveva attraversato tutta la mia vita. Le sincronicità si manifestavano in svariati contesti, dai più prosaici a quelli più ricchi di significato.

Due mesi prima, mentre mi trovavo con Roberto in una grande e affollata stazione di autobus a Città del Guatemala, una coppia di bell’aspetto fece il suo ingresso proprio quando arrivò il mio turno per acquistare il biglietto che mi avrebbe permesso di proseguire il viaggio. Nel momento in cui li notai, a una trentina di metri di distanza, mi sentii attraversare da un insolito lampo di energia. «Roberto, non so perché, ma sento che per qualche motivo devo andare a conoscere quei due». Mi incamminai verso la panca su cui si erano seduti.

La bellezza della donna e la sua postura regale mi tolsero il fiato. Solo allora mi venne in mente che forse non parlavano inglese. Tentando la sorte, dissi: «Scusate, ma per qualche motivo devo parlare con voi. Forse sapete perché?» L’uomo tradusse per la sua compagna di viaggio, e continuammo a conversare mentre lei mi scrutava con lo sguardo. Erano fratello e sorella, mi disse lui, e stavano tornando a casa, in Messico.

Infine la donna parlò. «Che fai nella vita?»

«Sto andando in Amazzonia per studiare lo sciamanesimo».

Lei sorrise, poi disse: «Io studio stregoneria a San Luis Potosi, in Messico. Quando avrai terminato i tuoi studi in Amazzonia, ti invito a venire da noi per imparare la stregoneria. Abbiamo un ranch bello grande». Mi scrisse l’indirizzo. «Ovviamente saprai già che per prendere questa strada devi passare cinque anni senza fare sesso. Io non lo faccio da tre. Ne sei capace?»

Mi sentii colpito, imbarazzato, stregato, e probabilmente ero anche arrossito. La donna mi aveva letto nel pensiero.

«Io non lo faccio da due» mentii. In realtà erano solo diciotto mesi, ma arrotondare a due anni poteva darmi una piccola spintarella in più verso il suo letto.

A Cali, in Colombia, vidi un uomo liberare un porcellino d’india per un gioco di scommesse. L’animaletto correva lungo un tracciato e si infilava attraverso una piccola apertura ricavata tagliando una ciotola di plastica, di quelle che contengono cibo per cani, posizionata in verticale. C’erano circa cinquanta di queste ciotole, allineate a ferro di cavallo, all’estremità finale di una pista da corsa per porcellini d’india lunga venti metri. Il gioco consisteva nel puntare la posta sulla ciotola attraverso cui sarebbe dovuto passare. Mentre partecipavo al gioco, fui colto da una strana sensazione. Ebbi una sorta di intuizione, che mi mostrò esattamente quale ciotola avrebbe scelto l’animale. Con la mano tesa davanti a me, mi lasciai guidare verso la ciotola giusta e vi posai sopra la mia posta. Il porcellino d’india venne liberato e, con la massima naturalezza, andò a infilarsi proprio nella ciotola che avevo scelto.

Roberto mi sentì urlare: «Sì! Sì!» mentre raccoglievo il denaro. «Che succede, compare?»

Gli spiegai il modo in cui avevo ricevuto l’informazione.

«È stata una coincidenza, compare».

«No, Roberto. È successo proprio così come ti ho detto».

Lui non voleva convincersi, perciò decisi di rifarlo. Stesi la mano davanti a me, come se fosse una bacchetta da rabdomante. Nulla. Aspettai. Niente di niente. Era una situazione piuttosto imbarazzante, e cominciai a entrare un po' in agitazione. Eccomi lì, nervoso e frustrato, con la mano piena di spiccioli protesa in avanti, in attesa di una qualche rivelazione ultraterrena che mi guidasse verso la ciotola vincente. Ridicolo. Ma la cosa peggiore era vedere Roberto che sogghignava dalla sua postazione. Doveva essere assurdo anche solo pensare di poter ricevere un messaggio in quel modo. Eppure me ne stavo lì con il braccio teso, come un personaggio uscito da II ritorno della mummia, ad attendere speranzoso che qualcosa arrivasse.

Mi resi conto che non solo era la prima volta che evocavo a me quell’energia, ma anche che le facevo una richiesta. Acquietai la mia mente e mi centrai. Ed ecco che, dopo due o tre minuti appena, qualcosa arrivò. O almeno così mi parve. Seguendo l’istinto, mi spostai verso il lato sinistro della fila di ciotole, lasciando che la mia mano posizionasse le monete sulla ciotola verso cui mi sentivo guidato. Il porcellino d’india venne sciolto. Sgambettò velocemente verso il lato opposto della pista, infilò la testa in una delle aperture, poi di colpo si fermò e, voltandosi, attraversò la pista fino a raggiungere il lato sinistro ed entrare dritto nella mia ciotola.

«Sì! Sì!» gridai, lanciando un’occhiata a Roberto che si copriva con una mano la bocca spalancata. Io stesso ero sconvolto e sbalordito. Quell’esperienza mi dimostrava che era possibile evocare le energie, gli spiriti, gli angeli o qualunque altra cosa mi avesse guidato. Non avevo mai pensato a tale possibilità. Inoltre, avevo scoperto che quelle stesse energie comunicavano anche con gli animali.

Ripercorrendo la mia vita a posteriori, ora so di aver vissuto anche nell’infanzia questo genere di strani episodi, anche se all’epoca non immaginavo che potessero significare qualcosa. Adesso che sono nonno e ho alle spalle sessantanni di esperienza, vedo tutto in modo più chiaro. Gli anni non mi hanno portato solo un’altra prospettiva da cui vedere le cose; mi hanno portato la Luce, che è molto meglio.

Se ripenso alla mia infanzia sulle colline ai piedi dei monti Appalachi, vedo un bambino pieno di magia. A nove anni, mentre passeggiavo lungo il corso principale, mi cadde addosso all’improvviso una pioggia di ranocchie. Mi guardai intorno e ben presto mi resi conto che il fenomeno era circoscritto a un raggio di circa quindici metri da dove mi trovavo io. Ero solo.

Qualche anno dopo, una notte scesi silenziosamente le scale per entrare nella stanza di mia sorella malata, perché qualcosa mi diceva di andare da lei. Mi avvicinai al suo letto e lei aprì gli occhi.

«Alan, che fai?» mi chiese con calma.

«Non lo so, Carla, ma ho la sensazione che se potessi tenere le mani sopra di te e muoverle tutt’intorno per qualche minuto ti sentiresti meglio. Posso?»

«Ok, va bene».

Ricordo di averle chiesto: «Dove ti fa male?»

Lei si mise le mani sullo stomaco per indicarmi la zona dolente, e io cominciai a muovere lievemente le mie mani in corrispondenza di quel punto, concentrandomi sul pensiero di toglierle il dolore. Ricordo la sensazione di vedere me stesso da una certa distanza: un ragazzino che guariva la sorella, e l’energia di guarigione che irradiava dalle sue mani. Dopo non più di cinque minuti, le chiesi: «Stai meglio?» E lei, con quella forte pronuncia nasale tipica del sud-est del Kentucky: «Sì, in effetti sì. Grazie, Alan. Ora sto meglio. L’hai fatto passare». Nell'innocenza della giovinezza, nessuno dei due era particolarmente stupito.

Un giorno, tornando a casa dopo aver giocato su in montagna, mi ero fermato per aspettare mio fratello rimasto indietro quando avvertii la strana sensazione di dover guardare sotto il mio piede sinistro. Proprio in quel punto affiorava la superficie di una pietra quasi completamente sepolta. Con il piede la tirai fuori dal terreno e la rigirai. Era concava, ma piena di minerali e cristalli: un geode. La magia di quel ritrovamento mi colmò di meraviglia.

Questo testo è estratto dal libro "Ayahuasca Medicina".

Data di Pubblicazione: 16 novembre 2017

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