Le Mie Invenzioni - L'Autobiografia di un Genio - Anteprima del libro di Nikola Tesla
Le mie imprese successive
All'età di dieci anni feci il mio ingresso al Reale Ginnasio di Gospic, un nuovo istituto organizzato piuttosto bene. Nel reparto di fisica c'erano diversi modelli delle classiche strumentazioni scientifiche, sia elettriche che meccaniche. Le dimostrazioni e gli esperimenti eseguiti di volta in volta dagli insegnanti mi affascinavano e costituivano indubbiamente un potente incentivo all'invenzione. Anche la matematica mi appassionava molto e spesso mi guadagnavo la lode del professore per il calcolo rapido. Questo grazie alla facilità che acquisii nel visualizzare figure ed eseguire operazioni non nella consueta maniera intuitiva, ma come se fossero una realtà concreta. Fino a un certo grado di complessità scrivere i simboli alla lavagna o farli apparire nella mente per me era uguale. Invece il disegno a mano libera, a cui erano dedicate molte ore, era una seccatura che non riuscivo a sopportare. Ed era una cosa piuttosto curiosa, dal momento che la maggior parte dei miei familiari eccelleva in quella disciplina. Forse la mia avversione era solo dovuta al fatto che preferivo riflettere indisturbato. Se non fosse stato per qualche ragazzo estremamente ottuso, che non riusciva a concludere proprio nulla, i miei voti sarebbero stati i peggiori. Era un vero handicap dato che sotto l'allora vigente programma scolastico, essendo il disegno materia obbligatoria, questa insufficienza minacciò di rovinare la mia intera carriera e mio padre si preoccupò notevolmente di farmi passare alla classe successiva. Durante il secondo anno in questo istituto cominciai ad avere l'ossessione di voler ricavare il moto continuo dalla pressione costante dell'aria. Dopo l'episodio della pompa, di cui ho già parlato, la mia giovane immaginazione era divampata ed ero rimasto impressionato dalle illimitate capacità di un vuoto. Cominciai a desiderare ardentemente di sfruttare questa energia inesauribile ma brancolai a lungo nel buio. Alla fine, comunque, i miei sforzi si materializzarono in un'invenzione che mi permise di realizzare quello che nessun mortale aveva mai tentato.
Il trogolo
Immaginiamo un cilindro libero di ruotare su due cuscinetti e parzialmente racchiuso da un trogolo rettangolare che lo avvolga perfettamente. Il lato aperto del trogolo è chiuso parzialmente in senso longitudinale dimodoché il segmento cilindrico all'interno del contenitore divida quest'ultimo in due scomparti perfettamente separati da un giunto scorrevole ermetico. Sigillato uno dei due scomparti e creato il vuoto al suo interno, lasciando aperto l'altro, risulterebbe una rotazione perpetua del cilindro, o almeno così pensavo. Costruii e misi a punto con enorme cura un modello in legno e quando applicai la pompa da una parte e osservai effettivamente la tendenza a ruotare, impazzii di gioia. Il volo meccanico era la sola cosa che volevo realizzare anche nonostante lo scoraggiante ricordo di una brutta caduta che ebbi saltando da un edificio con un ombrello. Ogni giorno ero solito immaginare di volare verso luoghi lontani ma non riuscivo a capire come avrei potuto farlo davvero. Ora sì che avevo qualcosa di concreto - una macchina volante con niente più che un albero rotante, delle ali che sventolavano, e - un vuoto di illimitata potenza! Da quel momento in poi compivo le mie quotidiane escursioni aeree in un veicolo di una comodità e di un lusso tali che avrebbe potuto confarsi a re Salomone. Mi ci vollero anni per capire che la pressione atmosferica agiva perpendicolare alla superficie del cilindro e che il debole sforzo rotatorio osservato era dovuto a una perdita. Sebbene lo appresi gradualmente, fu un duro colpo.
Avevo con fatica completato gli studi al Ginnasio quando fui prostrato da una grave malattia, anzi, da un gran numero di malattie, e finii in condizioni così disperate che i medici mi diedero per spacciato. In questo periodo avevo sempre il permesso di leggere, ricevevo i libri dalla biblioteca pubblica che era stata abbandonata e poi affidata a me per la classificazione delle opere e la preparazione dei cataloghi. Un giorno mi consegnarono alcuni volumi della più recente letteratura: essa non aveva nulla a che vedere con quanto avessi mai letto prima ed era così coinvolgente da farmi completamente dimenticare il mio pessimo stato di salute. Si trattava delle prime opere di Mark Twain e probabilmente dovetti a esse la miracolosa guarigione che seguì. Venticinque anni dopo, quando conobbi il signor Clemens e diventammo amici, gli raccontai di quella esperienza e mi colpì vedere quel grand'uomo sempre incline al riso scoppiare in lacrime.
I miei studi proseguirono al Reale Ginnasio superiore di Karlstadt in Croazia, dove viveva una mia zia. Era una signora distinta, moglie di un colonnello, un anziano veterano che aveva partecipato a molte battaglie. Non potrò mai dimenticare i tre anni passati con loro. Nessuna fortezza in tempo di guerra fu sotto più ferrea disciplina. Mi nutrivano come un canarino. Ogni pasto era di qualità sopraffina e cucinato in modo delizioso ma le porzioni erano infinitesimali. Le fette di prosciutto che tagliava mia zia sembravano carta velina. Quando il Colonnello mi metteva qualcosa di sostanzioso nel piatto, lei lo tirava via e diceva nervosamente: «Sta' attento, Niko è molto debole». Avevo una fame insaziabile e soffrivo come Tantalo. Ma vivevo in un ambiente di una raffinatezza e di un gusto artistico piuttosto rari per quei tempi e quelle condizioni. La zona era bassa e paludosa e mentre ero lì la febbre malarica non mi abbandonò un momento, nonostante l'enorme quantità di chinino che assumevo. Alle volte il fiume si ingrossava e portava dentro gli edifici un esercito di ratti che divorava qualsiasi cosa, addirittura le trecce di paprica piccante. Per me queste pesti erano una piacevole distrazione. Sfoltivo le loro fila con qualsiasi mezzo, cosa che mi valse l'invidiabile riconoscimento di miglior cacciatore di ratti del quartiere. Alla fine portai a termine i miei studi, il supplizio ebbe fine, e ottenni il diploma di maturità che mi condusse a un punto di svolta.
In tutti quegli anni i miei genitori non vacillarono mai sulla decisione di farmi abbracciare la vita religiosa, il cui solo pensiero mi riempiva di timore. Il mio interesse per i fenomeni elettrici era cresciuto molto sotto la stimolante influenza del mio professore di fisica, che era un uomo geniale e spesso dimostrava i principi mediante strumentazioni di propria invenzione. Ricordo che tra questi c'era un congegno costituito da un bulbo libero di ruotare, rivestito di alluminio, che era concepito per girare velocemente quando collegato a un generatore elettrostatico. Trovo impossibile dare un'idea esatta delle forti sensazioni provate assistendo alle dimostrazioni di questi fenomeni misteriosi. Ogni impressione produceva mille eco nella mia testa. Volevo saperne di più su questa meravigliosa forza; desideravo con tutto me stesso fare esperimenti e studiare, ma mi rassegnai all'inevitabile con il cuore in pena.
Proprio mentre mi preparavo per il lungo viaggio verso casa mi giunse notizia che mio padre desiderava che io partecipassi a una battuta di caccia. Era una strana richiesta visto che si era sempre opposto con decisione a questo tipo di sport. Ma qualche giorno dopo venni a sapere che in quella zona imperversava il colera, così, approfittando della circostanza, tornai a Gospic disattendendo il volere dei miei. È incredibile quanto le persone fossero del tutto ignoranti in merito alle cause di questa piaga che affliggeva il paese ogni quindici, vent'anni. Credevano che gli agenti che provocano la morte si trasmettessero per via aerea e allora riempivano l'aria di fumi e odori pungenti. Intanto bevevano l'acqua infetta e morivano in massa. Contrassi il terribile morbo proprio il giorno del mio arrivo e nonostante sopravvissi alla crisi, fui confinato nel letto per nove mesi con quasi nessuna possibilità di movimento. La mia energia si esaurì completamente e per la seconda volta mi ritrovai a un passo dalla morte. In un momento di paura che credemmo essere l'ultimo, mio padre si precipitò in camera mia. Ho ancora negli occhi il suo volto pallido mentre provava a tirarmi su di morale con un tono che tradiva la sua fermezza. «Forse,» dissi, «potrei riprendermi se mi permettessi di studiare ingegneria». «Frequenterai il migliore istituto di tecnologia del mondo,» replicò solennemente, e sapevo che diceva sul serio. Mi tolsi un gran peso dallo stomaco ma tale sollievo sarebbe arrivato troppo tardi se non fosse stato per una cura prodigiosa consistente in un decotto amaro di un particolare fagiolo. Tornai a vivere come un secondo Lazzaro con l'assoluto stupore di tutti.
Questo testo è estratto dal libro "Le Mie Invenzioni - L'Autobiografia di un Genio".
Data di Pubblicazione: 2 ottobre 2017