La Società del Benessere Comune - Anteprima del libro di Gesualdi e Ferrara
Il grande imbroglio delle strutture di potere
Il grande imbroglio delle strutture di potere, siano esse politiche, economiche, militari o religiose, è farci credere che agiscono per noi, mentre pensano solo ai loro interessi. Stando a certe pubblicità, viviamo in un mondo idilliaco, abitato da imprese create per amarci e servirci. Ed ecco i fratelli Barilla che producono biscotti sani, nutrienti e leggeri, solo per la soddisfazione di vedere famiglie, sorridenti e festanti, riunite intorno al tavolo. O Conad, che apre supermercati solo per la gioia di offrire regali ai propri avventori. O Tim che gestisce telefonia solo per il piacere di mettere in comunicazione gli amanti. Ovviamente tutti sanno che si tratta solo di tecniche di persuasione e che al di là della retorica, le imprese non sono interessate a noi come persone, ma solo ai nostri portafogli. Ci circuiscono finché, esausti, non apriamo il nostro borsello e cediamo alle loro pressioni.
Alla fine, per i mercanti è solo una questione di soldi. Ma qui tocchiamo un nervo scoperto perché il mercante non ha ancora risolto un vecchio dilemma che lo affligge da almeno due secoli: arricchirci o impoverirci? Il punto è che noi non indossiamo sempre la stessa giacchetta. Al mattino, quando entriamo in fabbrica o in ufficio, indossiamo quella dei lavoratori. La sera, quando entriamo nel supermercato, indossiamo quella dei consumatori. Morale: al mattino facciamo comodo poveri perché più bassi sono i nostri salari, più alti sono i profitti per il mercante. La sera, invece, facciamo comodo ricchi, perché più soldi abbiamo per le tasche, più vendite garantiamo alle imprese.
Fosse intelligente, il mercante opterebbe per la nostra ricchezza, perché la sua sopravvivenza non dipende dal livello dei profitti, ma dalla sua capacità di vendita. L’intelligenza, però, non è il suo forte e guidato solo dall’istinto predatorio, preferisce la paralisi piuttosto che rinunciare a un centesimo di guadagno. Esattamente come fa la faina che entrata nel pollaio, sgozza tutte le galline senza chiedersi cosa mangerà quando le avrà fatte tutte fuori. Non a caso il capitalismo ha sempre proceduto a singhiozzio con ampi periodi di crisi a causa dei bassi salari.
Per i mercanti le crisi sono solo battute d’arresto
Per i mercanti le crisi sono solo battute d’arresto. Per noi sono tragedie perché non ci è stata lasciata nessun’altra possibilità di sopravvivenza se non il lavoro salariato. La storia lo dimostra: il passaggio da lavoratori liberi a salariati non è avvenuto per libera scelta. Per obbligarci ad accettare di lavorare sotto un padrone, in cambio di un salario fissato da lui, prima siamo stati ridotti a nullatenenti, poi ci è stata indicata la fabbrica come unica strada per sbarcare il lunario. In Europa l’operazione fu condotta fra il 1600 e il 1800 con la cacciata dei contadini dalle terre comuni e la migrazione forzata verso le città. In Africa e nelle Americhe è andata anche peggio con la riduzione in schiavitù di milioni d’individui. Ma non è ancora finita. Nel Sud del mondo sono ancora tanti i contadini, i pastori, i pescatori, i tribali, costretti a trovare rifugio nelle città perché le loro terre, i loro mari, le loro foreste, sono prese d’assalto da imprese locali e internazionali assetate di natura da sfruttare. Lo dimostra ilcolonialismo di ritorno noto come land grabbing, furto di terre da parte di multinazionali di ogni nazionalità, a caccia di aree su cui coltivare cibo per l’esportazione o da trasformare in biocarburante per le automobili dei ricchi. In Colombia, nel solo comune di Mapiripán, fra il 1997 e il 2014 sono state sfollate oltre 12mila persone per fare posto alle piantagioni di olio di palma. Fra le imprese beneficiarie anche Poligrow, multinazionale partecipata dalla società italiana Asja Ambiente Italia riconducibile all’imprenditore piemontese Agostino Re Rebaudengo.
Ridotti in salariati e giustamente focalizzata la nostra attenzione sulla richiesta di essere trattati con rispetto, abbiamo dimenticato che esistono molti altri modi, più dignitosi, di provvedere a noi stessi. Con quell’unica formula in testa, abbiamo enfatizzato il lavoro salariato fino a gettarci mani e piedi nelle fauci del mercante che ufficialmente dichiara di voler garantire un posto di lavoro a tutti, nei fatti lavora per il suo contrario. Di fronte a tanto inganno, gridiamo al tradimento, ma invece di occuparci della slealtà del mercante faremmo meglio a preoccuparci della nostra ingenuità. Il mercante è scaltro, ma noi siamo creduloni perché ci ostiniamo a non voler capire che per lui il lavoro è solo un costo da comprimere e poco importa se dietro alle assunzioni e ai licenziamenti ci sono persone in carne e ossa che si disperano o gioiscono. Nell’arido linguaggio del denaro il lavoro è solo una merce, del tempo da comprare al prezzo più basso possibile. E poiché la legge di mercato sancisce che il prezzo scende quando c’è più offerta che domanda, per fare scendere il prezzo del lavoro bisogna creare più offerenti di lavoro di quanto siano i posti disponibili.
Il capitalismo può essere raccontato
Il capitalismo può essere raccontato come la storia di un sistema che si è organizzato per creare disoccupazione e assicurarsi costantemente lavoro a buon mercato. Fra le strategie utilizzate, c'è stata prima l'estromissione dei contadini dalle terre comuni, poi la sostituzione degli umani con le macchine, infine la globalizzazione. Strategie in continuo cambiamento per ottenere un numero crescente di persone in sovrappiù che tengano basso il prezzo del lavoro. Un progetto definito da Papa Francesco come l’”economia dello scarto”, e se fino a ieri gli scartati eravamo abituati a vederli nel Sud del mondo, oggi li troviamo sempre più nelle nostre case, a giudicare dalla crescita dei poveri e dei disoccupati.
Fatto del lavoro una variabile dipendente dall’andamento del mercato e dai calcoli di convenienza del mercante, l’umanità è sprofondata in situazione d’insicurezza mai vista prima. Era brutta la condizione di schiavi e servi della gleba, ma paradossalmente, fra una frustata e l’altra ci scappava anche la scodella di fagioli perché il padrone aveva bisogno di tutti e aveva interesse a che tutti gli abili al lavoro rimanessero in vita. Oggi invece, il sistema può permettersi di dire a qualche miliardo di persone che sono in sovrappiù e condannarli a vivere rovistando fra i rifiuti prodotti dai pochi ammessi.
Ma il mercante rilancia sostenendo di avere una ricetta buona per tutti: per lui e per noi. La soluzione si chiama crescita e parte dal presupposto che se le aziende producono, e soprattutto vendono di più, sono stimolate ad assumere nuovo personale e tutti vivranno felici e contenti. Così è subentrata l’adulazione per il Pil, il famoso prodotto interno lordo. Ma la storia dimostra che non c’è automatismo fra aumento del Pil e crescita dell’occupazione, perché ci sono altre due variabili in gioco che ne condizionano l’esito: la tecnologia e la navigazione in mare aperto. Al tempo della globalizzazione, che permette alle imprese di spostare la produzione dove conviene di più, i consumi possono crescere a Roma, ma l’onda positiva sull’occupazione può scaricarsi a Shangai. Del resto è stato ampiamente dimostrato che il mercato da solo non riesce a promuovere la crescita. Come vedremo nel primo capitolo, per riuscirci ha bisogno dell’intervento dello stato. Ma il problema è che il mercato ha un’avversione viscerale nei confronti dell’azione pubblica, per cui fa di tutto per liberarsene facendosi del male con le sue stesse mani. Dal dopoguerra a oggi il periodo di massima espansione economica si è avuto dal 1950 al 1980, i famosi trenta gloriosi, poi il sistema ha galleggiato, inventandosi il debito come sostituto della mano pubblica. Ma come è descritto nel capitolo tre, il debito funziona sul momento, poi si rivela catastrofico, non solo perché incoraggia la finanza d’azzardo, che espone il sistema bancario ai fallimenti, ma anche perché prima o poi il debito va restituito facendo entrare il sistema in un cono d’ombra caratterizzato da contrazione dei consumi.
Sulla capacità del mercato di rilanciare la crescita senza l’intervento dello stato, non scommette più nessuno. Il problema, ovviamente non è l’assenza di persone con bisogni da soddisfare, ma il fatto che al mercato non interessano i poveri, bensì i ricchi, che però sono in panne anche loro. Con tutti i beni che hanno accumulato, non riescono più a garantire un livello di consumi adeguati alle esigenze del sistema. Ed ecco la necessità dello stato. Tramite tasse più eque, che redistribuiscono la ricchezza, e la stampa di nuova moneta per spese e investimenti sociali, lo stato è l’unico che può forzare la situazione per indurre la crescita economica. Ma il mercato dice no e si affida piuttosto alla pubblicità e alla tecnologia, senza tenere conto che se i consumatori non hanno soldi da spendere, non serve a niente tormentarli con nuove voglie. Del resto il grado d’innovazione che servirebbe per fare crescere l’economia in maniera costante va ben oltre le potenzialità di cui la tecnologia è capace.
La questione ambientale
Tuttavia non è possibile proseguire questo dibattito senza prendere in considerazione un altro tema che sta condizionando ogni altra scelta. E’ la questione ambientale da sempre negata dal paradigma della crescita, ma che oggi nessuno può disconoscere perché ha assunto i contorni della minaccia a causa della scarsità di risorse e di accumulo di rifiuti che si è venuta a creare. Come vedremo nel quarto capitolo, un secolo di crescita incontrollata ha dato una dura spallata non solo a minerali e petrolio, ma anche alle risorse rinnovabili come acqua, prodotti agricoli, pesce, foreste, tutti beni consumati oltre la capacità di rigenerazione del pianeta. Intanto l’eccesso di anidride carbonica sta facendo cambiare il clima con ripercussioni a catena sull’innalzamento dei mari, desertificazioni, alluvioni, rovesci nei raccolti agricoli, migrazioni forzate.
Uno degli aspetti più drammatici della crisi ambientale è che abbiamo messo il pianeta a ferro e a fuoco non per garantire la prosperità a tutti, ma solo l’abbondanza a pochi, mentre i più non hanno ancora conosciuto il gusto della dignità umana. Le differenze di ricchezza a questo mondo sono scandalose a tutti i livelli: fra nazioni e classi sociali, e mentre una minoranza, che non va oltre il 25-30%, gozzoviglia, la maggioranza a stento riesce a far fronte ai bisogni fondamentali, con un 40% che decisamente non ce la fa. Un tempo pensavamo che per fare giustizia su questa Terra bastasse cambiare le regole di funzionamento dell’economia e di distribuzione della ricchezza. In fondo, ci crogiolavamo nel sogno di poter fare giustizia portando tutti gli abitanti del pianeta al nostro stesso tenore di vita. Oggi sappiamo che non è possibile perché ci vorrebbero cinque pianeti. Eppure loro, gli impoveriti, hanno bisogno di condurre una vita migliore ma potranno farlo solo se noi, gli opulenti, accettiamo di rivedere i nostri consumi perché c’è competizione per le risorse scarse e spazi ambientali delimitati. Detta in un altro modo, noi non abbiamo quattro pianeti di scorta. Con quest’unico pianeta dobbiamo garantire agli impoveriti di risalire rapidamente la china e lasciare ai nostri figli un pianeta abitabile. Due sfide che potremo vincere solo se accetteremo di imboccare la strada della sobrietà, ossia di attestarci a un tenore di vita che usa meno risorse e produce meno rifiuti, a partire dall’anidride carbonica.
La crisi ambientale
La crisi ambientale, collegata al diritto dei miseri e delle generazioni future, sta ormai rendendo superflua la discussione interna ai nostri paesi su chi debba attivare la crescita: se il mercato o lo stato. La discussione è senza senso semplicemente perché la crescita non è più possibile. Basta, è finita. Dobbiamo accettare che abbiamo cresciuto fin troppo, e piuttosto che continuare ad aumentare di peso, non importa se di lardo o di massa muscolare, dobbiamo cominciare a selezionare attentamente i nostri bisogni, in modo da salvaguardare, e se necessario potenziare, quelli che sono fondamentali per la nostra dignità come la cura della persona, mentre dobbiamo ridimensionare l’inutile e il superfluo. Facendo questo tipo di analisi scopriremmo che abbiamo un’idea distorta di benessere, perché ci siamo concentrati solo sulle cose, mentre abbiamo lasciato fuori le relazioni. Ecco la necessità di farsi contagiare da altre culture per ritrovare il nostro equilibrio. In questo sforzo ci può essere particolarmente utile l’idea di benvivere perseguita dalle popolazioni indios delle Ande, che concependo la persona come un essere a più dimensioni, mettono l’accento sulla necessità di organizzare la vita in modo da ritrovare l’armonia con noi stessi, con gli altri, con la natura.
Chi sperimenta altri stili di vita, meno ingolfate di cose, scopre che la felicità non si misura solo con la quantità di merci che si gettano nel carrello della spesa, ma soprattutto con la capacità di vivere serenamente, di ricevere e dare solidarietà, di sentirsi protetto in un ambiente salubre. In effetti noi abbiamo molte cose, ma siamo tristi, stressati, talvolta malati, perché siamo soli, troppo di corsa e forzati a vivere in un ambiente inquinato. Dunque rallentare ci farebbe bene e lo sappiamo. Ma una paura ci trattiene e ci riporta nelle braccia di questo sistema che produce insostenibilità, iniquità, infelicità. E’ la paura del posto di lavoro e quindi della nostra sopravvivenza. «Di che lavoreremo se consumiamo di meno?» è la domanda che molti si pongono di fronte alla prospettiva di uno stile di vita più snello. Il che dimostra che il vero nodo della conversione ecologica non è tecnologico, ma di tipo sociale. Passando dalle energie fossili alle energie rinnovabili, dall’agricoltura industriale all’agricoltura biologica, dalla produzione lineare alla produzione circolare, dall’auto a benzina all’auto elettrica costruiremo un’economia verde, non una società sicura. La sicurezza di vita, invece, è la cosa a cui la gente aspira di più, è il criterio di giudizio che usa per valutare i sistemi ancor prima della libertà e della democrazia. Non a caso Alex Langer diceva che la conversione ecologica si affermerà solo se sarà socialmente desiderabile. Ossia, organizzata in maniera tale da fare sentire tutti sicuri e protetti.
Il mercante ci ha abituato a credere che l’unico modo per procurarci da vivere sia vendere il nostro tempo e col ricavato fare la spesa al supermercato. Questo modello è diventato così pervasivo da essersi imposto come l’unica prospettiva possibile. Nel nostro immaginario il lavoro salariato è l’unico modo a disposizione dei nullatenenti per vivere. L’unico modo, non solo in questo sistema, ma in assoluto. Come se uno pensasse che l’unico modo per muoversi sia camminando, dimenticando che in acqua si nuota e per aria si vola. Rispetto ai modi per provvedere ai nostri bisogni noi abbiamo lo stesso problema. Dobbiamo riscoprire che oltre al lavoro salariato esistono anche altri modi per soddisfare i nostri bisogni. Si tratta dell’autoproduzione e del lavoro comunitario che basandosi su principi diversi dalla compra-vendita, sono particolarmente adatti ai contesti di sobrietà perché permettono di raggiungere l’obiettivo senza bisogno di spingere i consumi verso l’alta marea. In conclusione la diversificazione del lavoro è la chiave di volta della conversione ecologica a vocazione sociale. Nella società del bene comune, non chiederemo più alle persone che lavorano fanno, bensì quali lavori fanno e nelle loro risposte verranno elencate varie attività di cui alcune retribuite, altre non retribuite, a dimostrazione che il problema vero non è eliminare il mercato, ma ridimensionarlo per dare impulso ad altre formule come il fai da te, lo scambio di vicinato, la solidarietà collettiva. Tutte tematiche affrontate nei capitoli della seconda parte, che si conclude con un capitolo sulle politiche di transizione.
Questo testo è estratto dal libro "La Società del Benessere Comune".
Data di Pubblicazione: 2 ottobre 2017