I Consigli di un Maestro Spirituale - Anteprima del libro di Wayne W. Dyer
Ognuno di noi ha un proprio potenziale
“Non cè dono più grande che si possa dare o ricevere che rispondere e rispettare la propria vocazione. È la ragione per cui siamo nati. E il modo per essere vivi nella maniera più autentica.”
Oprah Winfrey
Sono cresciuta con l’idea che ognuno di noi ha un proprio potenziale, che viviamo in un universo perfetto dove tutto è connesso e che siamo qui per uno scopo. Ogni anima imparerà diverse lezioni e insegnerà a sua volta agli altri: ecco perché veniamo su questo Pianeta. Non ho mai dubitato di essere venuta al mondo con una missione, anche se non sempre mi è stato ben chiaro quale fosse.
“Non morire senza aver sprigionato il tuo potenziale” è la frase più profonda che da piccola sentivo ripetere in continuazione. Sapevo che tutti c’incarniamo in questa vita con un obiettivo, per qualcosa di unico che ci richiama e fa emozionare la nostra anima. L’idea di morire senza aver espresso il potenziale con cui ero giunta qui mi terrorizzava... e mi spaventa ancora! Mi sono chiesta molte volte: perché sono qui?
Quand’ero bambina i miei genitori mi hanno insegnato a non seguire la massa. “Non farti condizionare da quello che gli altri ti dicono di fare” mi suggerivano. “Segui soltanto il cuore, Serena.”
Più avanti, una volta adolescente, mi dissero: “Quando si segue il gregge, è inevitabile pestare la merda. Stai lontana dal gregge: pensa con la tua testa. Fai quello che ritieni giusto per te.”
Ricevevo continuamente consigli di questo tipo, ma seguirli non era tanto semplice. Ciò che volevo e ciò che era giusto per me spesso non coincidevano. Avevo voglia di provare droghe, bere alcolici con gli amici, andare alle feste e mentire ai miei genitori al riguardo. Sapevo che non erano scelte “giuste”, ma capivo anche che volevo fare le mie esperienze. Scusavo il mio comportamento dicendomi che quella era la scelta migliore perché la desideravo: stavo solo seguendo il mio cuore. E sai una cosa? Ho fatto quelle esperienze e ne ho tratto degli insegnamenti, e oggi non ci penso quasi più. Le volte in cui non ho scelto per il meglio spesso si sono rivelate momenti di grande difficoltà che mi hanno permesso di crescere enormemente a livello personale. Cerco di non giudicare il mio passato: dopo tutto, senza, non sarei chi sono oggi!
So che si può morire senza aver sprigionato il proprio potenziale a prescindere da “cosa si fa” nella vita: infatti è qualcosa che dipende da come “conduciamo” la nostra esistenza. Crescere i figli perché diano spazio alle proprie inclinazioni significa educarli prima a riconoscere e poi a seguire la propria vocazione. Vuol dire incoraggiarli a fidarsi del cuore, ad ascoltare l’intuito e nient’altro. Implica anche insegnar loro a cambiare e a voltare pagina, invece di rimanere ancorati a una decisione presa in passato.
Se sei te stesso, puoi godere di ogni tappa del viaggio, senza mai scendere a compromessi per compiacere qualcun altro. Più cresco, più capisco che l’importante nella vita è il viaggio. Mentre questo una volta m’infastidiva, adesso mi piace moltissimo!
Come ci hanno mostrato il cammino
Credo che i miei genitori sapessero che il modo migliore per insegnare ai figli a essere fedeli a se stessi è dare l’esempio, ed è proprio ciò che hanno fatto. Per dirne una, mio padre non si è mai vestito come gli altri papà. Le persone spesso gli mandavano per posta T-shirt con scritte di ogni genere e lui, quand’ero bambina, le portava tutti i giorni. Ricordo che una volta pregai i miei genitori di lasciarmi frequentare le lezioni di cotillon (una scuola di ballo e di galateo per bambini). Quando arrivò il momento del ballo padre e figlia, tutti gli altri si presentarono in smoking, mentre mio papà indossava dei pantaloni kaki, un paio di sandali e una maglietta con la scritta Imagine all the people living life in peace. Non stava cercando di comportarsi da ribelle, semplicemente non aveva un vestito elegante!
Papà e mamma hanno fatto scelte personali anche nella loro relazione. Non si sposarono finché non arrivai io, la sesta di otto figli! Quando chiesi a mia madre per quale motivo avessero scelto di compiere quel passo proprio allora, lei mi rispose che solo in quel momento entrambi si erano sentiti di farlo. Personalmente penso che sia stata la maniera in cui Dio li preparò al bambino in arrivo: me. Se non fossero stati sposati prima della mia nascita, probabilmente dopo uno dei due se la sarebbe data a gambe levate!
Una delle prime volte in cui ricordo di aver pensato con la mia testa risale a quando ero molto piccola, in prima o in seconda elementare. Durante l’ora di religione ci stavano spiegando che solo chi era stato battezzato e credeva in Gesù come proprio Salvatore sarebbe entrato in paradiso. Alzai la mano e chiesi: “Ma che cosa succede se uno vive molto, molto, lontano da noi, dove nessuno sa chi è Gesù? Come può essere colpa sua? Com’è possibile che Dio non lo lasci entrare in paradiso se non è colpa sua?”.
L’insegnante fornì una risposta vaga, che non placò la mia crescente preoccupazione per le anime che non sarebbero entrate in paradiso. Continuai a tornare sulla questione, insistendo sul fatto che Dio avrebbe certamente permesso di entrare in paradiso a un bimbo che non aveva mai incontrato nessun cristiano o non aveva mai sentito parlare di Gesù: a me sembrava ovvio che una persona tanto giovane non avesse colpa se non sapeva niente di Gesù. Ricordo che, quando l’insegnante replicò severamente che l’unica maniera per accedere al paradiso era essere battezzati e aver accettato Gesù come Salvatore, rimasi malissimo per lei, che credeva che l'amore di Dio fosse insensibile e, peggio, intollerante.
Qualche anno dopo, si verificò un fatto analogo. In prima media stavamo studiando attualità, e l’argomento della settimana era l'immigrazione. Con mio grande stupore, la maggior parte dei miei compagni era convinta che chi non era nato in America sarebbe dovuto “essere rimandato al proprio Paese”. Ricordo di aver detto qualcosa come: “E se queste persone sono arrivate qui da piccole e l’America è tutto ciò che conoscono? E se lavorano sodo, portando il proprio contributo alla nostra società? Non dovrebbero poter restare? Non siamo tutti figli di immigrati in questo Paese? . Frequentavo una scuola cristiana ed ero profondamente colpita dalla mancanza di compassione dei miei compagni. Ero così sconvolta che cominciai a piangere, singhiozzando forte, di fronte a tutta la classe. Anche se sarebbe stato più semplice rimanere seduta tranquilla e “seguire il gregge”, proprio non riuscii a stare zitta..
A casa raccontai questa dolorosa esperienza ai miei genitori, che mi dissero che erano molto orgogliosi di me. Si congratularono per la mia curiosità e per non aver ceduto davanti alla risposta dell’insegnante, che trovavo inaccettabile.
Le raccomandazioni di molti genitori - “fai come tutti gli altri, sforzati di essere normale” e “cerca semplicemente di adattarti - a casa mia non si sono mai sentite. Al contrario, mamma e papa erano quelli strani, sempre a ripetere, a me e ai miei fratelli, che non era necessario adattarsi e che alcune regole erano fatte per essere infrante.
I miei genitori mi hanno insegnato a fidarmi dei miei desideri, ad ascoltare il cuore e a seguire quello che ritenevo adatto a me. Mi hanno incoraggiato ad abbandonare qualsiasi convinzione religiosa che non sentissi giusta e a liberarmi di ogni idea sulla società che non fosse in sintonia con me. Erano invece chiaramente d’accordo con Albert Einstein che, a quanto pare, una volta dichiarò: “Il buon senso è l’insieme dei pregiudizi acquisiti quando si arriva a diciott’anni.” Erano convinti che a volte fosse meglio non affidarsi al buon senso, ma all’intuizione.
Ogni volta che i miei fratelli e io avevamo un battibecco, papà ci ripeteva un detto dei nativi americani: “Nessun albero ha rami così stupidi da litigare tra loro.” Diceva che siamo tutti rami dell’albero dell’umanità, quindi combattere tra di noi è sciocco. Per un po’ ho pensato che fosse matto, ma oggi capisco cosa intendeva. Credo che questo detto possa applicarsi anche a come ci relazioniamo con noi stessi.
La nostra parte più autentica
Quando nascondiamo la nostra parte più autentica per adeguarci agli altri o per entrare in un gruppo, soffochiamo la nostra anima, e la nostra vera vocazione potrebbe passarci accanto mentre siamo impegnati a rendere felici gli altri. Se non amiamo il nostro corpo, è perché non capiamo che è soltanto un contenitore dell’anima. Eckhart Tolle afferma: “Tu sei l’universo che esprime se stesso in forma umana per un certo periodo.” Se viviamo un conflitto interiore, in cui odiamo il nostro corpo o rifiutiamo la nostra vera essenza, ci comportiamo proprio come due rami della stessa pianta che litighino fra loro. Non saremo mai in pace se i nostri pensieri sono sempre in contrasto l’un l’altro. Con il tempo ho imparato che una mente in lotta con se stessa - ossia una mente che rifiuta la sua autentica vocazione, la sua stessa natura e il corpo -, non è in grado di conoscere la dolcezza perpetua.
Se il tuo dialogo interiore è sempre incentrato su quello che non va in te o nella tua vita, ti suggerisco di ascoltare quella voci-na, notando ciò che dice, ma con distacco. Personalmente, riesco a mettere a tacere il dialogo interiore con la meditazione. Altri corrono, ascoltano la loro musica preferita o praticano yoga. Dedicati a qualsiasi attività vada bene per te!
Questo testo è estratto dal libro "I Consigli di un Maestro Spirituale".
Data di Pubblicazione: 2 ottobre 2017