Segui Asha Nayaswami nel suo cammino di illuminazione al fianco di Swami Kriyananda, allievo di Paramhansa Yogananda, leggendo l'anteprima del suo nuovo libro.
Seguendo i passi di Swami Kriyananda
Anni 1970-71
Il primo atto di fede nella mia vita ad Ananda fu di continuare, contro ogni buonsenso, a seguire le istruzioni ricevute per il viaggio, nella speranza che quella ripida strada rocciosa e piena di buche mi conducesse alla comunità che stavo cercando. Avevo riposto molte speranze in quella visita.
Avevo appena compiuto ventitré anni. Potrebbe sembrare presto per stare vivendo un'esistenza di quieta disperazione, come disse appropriatamente Thoreau. Eppure era così. Desideravo disperatamente trovare un significato nella vita e una causa alla quale potermi dedicare senza riserve. Desiderava disperatamente la vera felicità e un modo per condividerla con gli altri.
Nel contesto della cultura degli anni Sessanta, avevo scoperto la religione orientale. Per diversi anni ero stata immersa nei principi della realizzane del Sé, dapprima come filosofia, poi attraverso la lettura delle vite di santi e di yogi che non si erano limitati a studiare questi insegnamenti, ma li avevano vissuti.
La mia vita, al contrario, continuava con i soliti ritmi mondani: andare al lavoro, tornare a casa, mangiare, dormire, vedere gli amici, poi alzarsi e ricominciare daccapo. Un giorno, mentre guardavo fuori dalla finestra tutti gli altri palazzi uguali al mio, pieni di persone come me che andavano al lavoro, tornavano a casa, mangiavano, dormivano e rifacevano le stesse cose giorno dopo giorno, compresi perché la gente finisse per suicidarsi, drogarsi o scivolare nella follia. Qualunque cosa, pur di sfuggire a quella che Paramhansa Yogananda ha definito la "angosciante monotonia" di questa vita.
Ironicamente, lo studio della scienza della realizzazione del Sé aveva peggiorato la mia disperazione. Avevo la chiave, ma non riuscivo a trovare toppa in cui infilarla.
Poi incontrai Swami Kriyananda, nel novembre del 1969, appena prima del giorno del Ringraziamento. Stava tenendo una conferenza alla Stanford University. Io avevo abbandonato quell’università qualche anno prima, ma vivevo ancora nei paraggi. Swamiji entrò nella stanza e, prima ancora che dicesse una parola, una voce interiore, guidata dall’intuizione che non sapevo ancora di avere, dichiarò: "Lui ha quello che voglio!".
Sapevo, a livello teorico, che era possibile trasformare la propria coscienza. Avevo una pila di biografie di persone che l'avevano fatto. Ma erano morte, lontane o vivevano in un contesto impossibile per me: grotte himalayane, monasteri cattolici, sperdute missioni nella giungla.
Questo era diverso. Kriyananda era americano. Era discepolo di un insegnante indiano — Paramhansa Yogananda, autore di "Autobiografia di uno yogi" — ma il contesto della sua vita, il suo linguaggio, la sua esperienza, erano uguali ai miei.
Swamiji tenne un discorso, ma non ricordo nulla di ciò che disse, se non la mia prima impressione: "Questo è l’uomo più intelligente che io abbia mai conosciuto". Aveva fondato una comunità in una zona rurale ad alcune ore di distanza da San Francisco, verso nord. Per lui, e per i pochi fortunati che ci vivevano, questo non era solo un insegnamento: era un modo di vivere e di servire. Parte integrante della comunità, infatti, era un ritiro aperto al pubblico.
Questo era di vitale importanza per me, poiché il mio anelito alla felicità era inseparabile dal mio desiderio di portarla anche agli altri. Non cercavo le fugaci imitazioni esteriori della felicità offerte dal mondo, ma la duratura felicità dell'anima. C'è una parola sanscrita per questo: Ananda, “beatitudine divina”, lo stesso nome che Kriyananda aveva scelto per la sua comunità.
Ananda, la casa della pace
L'ultimo tratto di strada era il peggiore di tutti. Procedendo a passo di lumaca, sempre più preoccupata di ritrovarmi a chilometri di distanza dal luogo in cui avrei voluto essere, finalmente scorsi la torre delia cisterna, il punto di riferimento che stavo cercando.
Il clima da allora è cambiato, ma a quell’epoca cadeva un metro e mezzo di pioggia all'anno, oltre a delle occasionali nevicate, il tutto nell’arco di sei mesi. Per l’altra metà dell’anno c'era totale siccità. Come diceva spesso il giardiniere-capo, il terreno si trasformava "da palude a campo da tennis prima che si facesse in tempo ad ararlo!".
Era l'agosto del 1970, al culmine della stagione arida, e quello che in inverno era stato fango si era trasformato in una sottile polvere rossa. Aprii lo sportello della macchina e, quando il mio piede toccò terra, la polvere si levò in una nuvola attorno al mio sandalo. Per la terza volta, la mia intuizione si espresse a parole: "Questo posto è autentico. Non ti deluderà. Qui troverai quello che cerchi".
Vidi alcuni piccoli edifici, ma non c'erano persone. Ben presto giunsi a un ampio portico, costruito attorno a una costruzione a cupola che sembrava essere la sala da pranzo. Sul lato opposto c’era un cantiere, dove alcuni carpentieri lavoravano a una grande piattaforma, sostenuta da blocchi di cemento. Una parte del legname era annerita dal fuoco. In seguito, appresi cune settimane prima il tempio era stato distrutto dalle fiamme.
Poi vidi Swamiji. Era seduto sotto un grande albero e parlava tranquillamente con un altro uomo. Faceva molto caldo e lui era a petto nudo, con un dhoti arancione (un abito indiano simile a una gonna) e i lunghi capelli sciolti sulle spalle.
Ero cresciuta in una famiglia ebrea. A volte andavamo al tempio, ma più più per motivi culturali che religiosi. Non avevo mai viaggiato fuori dagli Stati Uniti né visitato altre chiese. Il concetto di “spazio sacro” non mi era familiare. Tuttavia, su quel portico, mentre osservavo Swamiji, seppi di essere su un terreno sacro.
Erano gli ultimi giorni dell’annuale Settimana del rinnovamento spirituale ad Ananda. Ogni mattina Swamiji teneva una lezione e ogni sera un satsang (incontro spirituale), nel quale cantava e raccontava storie sulla vita con il suo guru, Paramhansa Yogananda, che lui e tutti gli altri ad Ananda chiamavano Maestro.
Nei pochi giorni seguenti nulla contraddisse, e tutto rafforzò, la mia impressione di Swamiji, di Ananda e del fatto di essere su un terreno benedetto. Il mio destino era segnato e io ero alle stelle dalla felicità! Mi ci vollero dieci mesi per districarmi dalla vita che conducevo. Finalmente, scrissi Swamiji che sarei arrivata per vivere ad Ananda.
Lui mi mandò a dire che sarebbe stato di buon auspicio arrivare il martedì prima di pranzo. Così, martedì 1° giugno 1971, dopo aver caricato in fretta e furia la macchina per partire in tempo, arrivai con uno stridio di freni poco prima di mezzogiorno.
Swamiji stava facendo un ritiro in silenzio per lavorare ai suoi scritti, ma acconsentì a vedermi. Seva Wiberg, responsabile finanziaria della comunità e una delle persone di riferimento di Swamiji, andava a casa sua ogni pomeriggio alle 16:00. Quel martedì mi portò con sé. Poiché Swamiji era in silenzio, la conversazione, dal mio punto di vista, fu un po’ strana. Io parlavo e lui scriveva le risposte.
"C'è qualcosa che desideri chiedermi?" scrisse.
"No, volevo solo farle sapere che sono qui."
Swamiji ne prese atto, dato che ero proprio lì. Poco dopo, con grazia, mi fece capire chiaramente che, visto che non c'era nient'altro di cui parlare, sarebbe stato felice di tornare al suo lavoro e alla sua solitudine. Così ebbe inizio la mia vita ad Ananda.
Una nuova vita
Ananda era composta da tre località, all’interno di una piccola zona rurale della Contea del Nevada, in California, chiamata San Juan Ridge. Situata alle pendici della Sierra Nevada, a un'altitudine di circa 750 metri, si trovava a una trentina di chilometri dalla città più vicina, Nevada City.
La Farm (Fattoria), che alla fine divenne Ananda Village, era la comunità dove vivevano le famiglie con i bambini. Il Meditation Retreat (Ritiro della meditazione) si trovava a circa dieci chilometri di distanza — la maggior parte dei quali su quella strada dissestata e non asfaltata che mi aveva accolta al mio arrivo ad Ananda — ed era il ritiro per gli ospiti e per i residenti che desideravano una vita più meditativa.
Ayodhya era un appezzamento più piccolo, un po’ distante dalla Fattoria, dove Swamiji stava costruendo la sua casa. Inizialmente, Swamiji aveva pensato di sviluppare la comunità sul terreno del Ritiro, per lo meno per i primi cinque anni.
Quel terreno era già interamente pagato grazie ai suoi anni di insegnamento nella Baia di San Francisco, e l’assenza di un mutuo era un notevole vantaggio per la nascente comunità. In teoria, famiglie, bambini e yogi meditanti avrebbero potuto vivere armoniosamente insieme su quei trenta ettari; in realtà, anche un solo bambino esuberante — e ce n'erano diversi — poteva essere sentito ovunque, interrompendo il silenzio necessario per un luogo dedicato ai ritiri di meditazione.
Il Ritiro era di proprietà di Swamiji, ma faceva parte di un appezzamento molto più ampio che aveva acquistato insieme ad altre persone nel 1967.
Nel primo anno era sorta una certa confusione in merito alla proprietà e alla gestione della terra e questo, in seguito, aveva reso impossibile sviluppare il Ritiro e la comunità nel modo che Swamiji aveva concepito.
Fortunatamente, la Fattoria e la vicina Ayodhya furono messe in vendita proprio quando stava diventando necessario un cambiamento.
Swamiji chiese a Jyotish Novak — uno dei suoi amici più fidati e in seguito suo successore spirituale — di trasferirsi dal Ritiro alla Fattoria per guidare l'energia in quel luogo. Non era un compito semplice. Era il momento culminante del movimento hippie di “ritorno alla terra” e, a parte una ferrea regola contro l’uso di droghe, la definizione della comunità era vaga. Ananda era una grande avventura e accoglieva quasi chiunque volesse farne parte.
Anni dopo, scherzando, dicevamo che in quel periodo per essere membri bastava essere in grado di cantare AUM tre volte e dire che si era smesso di prendere droghe.
Per la maggior parte, coloro che arrivavano erano brave persone, ma la loro idea di comunità non corrispondeva sempre a ciò che Swamiji aveva in mente. Un po’ alla volta emersero le differenze, non sempre in modo armonioso. Jyotish fece un lavoro meraviglioso nel portare avanti la visione di Swamiji, continuando al tempo stesso a offrire amicizia e sostegno coloro che avevano idee diverse.
Quando arrivai, le condizioni al Ritiro erano semplici, quasi primitive. Per cinque mesi vissi in una tenda, finché una nevicata precoce mi costrinse a trasferirmi in qualcosa di più solido. In ogni caso, a parte un paio di eccezioni, “solido” significava dei tepee di tela, delle piccole capanne di legno o delle roulotte, tutti privi di isolamento, di cucine personali perfino di acqua corrente e servizi igienici.
Trasportavamo l’acqua in grandi damigiane, e avere anche solo l’acqua fredda dentro casa o un rubinetto più vicino della cisterna in cima alla collina era considerato lusso.
Mangiavamo insieme nella sala da pranzo e ci lavavamo nelle docce comuni. Non c'era elettricità, fatta eccezione per un generatore che serviva pompare l’acqua e a far funzionare un frullatore nella cucina principale, se i cuochi lo usavano al momento giusto. Utilizzavamo la legna per riscaldarci, il propano per cucinare e il kerosene per le lampade. Di comune accordo, nessuna abitazione poteva essere entro il raggio visivo o a portata di orecchio delle altre.
La maggior parte della terra era inaccessibile se non a piedi, lungo sentieri stretti e polverosi.
Ero cresciuta nei sobborghi di una grande città e successivamente ero vissuta per un po’ a New York e a San Francisco, ma per la maggior parte del tempo ero rimasta nello stesso ambiente in cui ero cresciuta. Non ero mai andata in campeggio e non avevo neppure visitato zone rurali. Ero sempre circondata da persone. Interiormente, però, mi tenevo ai margini della folla, cercando invano di comprendere un mondo che non aveva alcun significato per me. Vivevo dietro uno scudo psichico, che avevo eretto così presto nella mia vita da dimenticarmi perfino che esistesse.
Ora, per la prima volta, ero circondata da spiriti affini. Invece di proteggermi dall’ambiente, volevo assorbirlo completamente.
Il Ritiro era così remoto che non vi si insinuava nulla che non fosse naturale. Fatta eccezione per alcune abitazioni, non c'erano suoni o luci, se non quelli offerti dalla Natura. Non avevo mai considerato la sottile influenza dell'elettricità ma, adesso che me ne ero allontanata, potevo percepire il mio sistema nervoso calmarsi.
Uno dei benefici di non avere il bagno in casa era quello di essere costretta a uscire di notte, quando, altrimenti, non avrei lasciato la mia comoda stanza. Per la prima volta vedevo le fasi della luna, le costellazioni che si spostavano nel cielo, i tramonti, le albe e, con l’arrivo dell’inverno, la pioggia e la neve che cadevano dal cielo di mezzanotte. Tutti doni gloriosi e inaspettati.
Le successive generazioni di residenti di Ananda si sono meravigliate, a volte, delle privazioni che abbiamo sopportato. Privazioni? Ogni cosa prima che mi trasferissi ad Ananda: quella era una privazione!
Anni dopo, feci a Swamiji una domanda sulla reincarnazione: quali erano le cause e come evitarla.
"Anelito e rimpianto" rispose lui, semplicemente. "È questo che ti fa tornare, vita dopo vita." L’anelito per ciò che non hai mai avuto o che hai perduto troppo presto. Il desiderio di vendetta, di pareggiare i conti con coloro che ti hanno fatto dei torti. Il rimpianto di opportunità perdute.
Azioni sconsiderate che hai bisogno di riparare. Tutto questo è in egual modo vincolante.
Pur temendo che il desiderio mi intrappolasse nuovamente, dissi: "Potrei ripetere quei primi dieci anni ad Ananda senza battere ciglio. Era un paradiso terrestre."
"Questo è diverso" rispose Swamiji. "È un anelito dell’anima, non dell’ego. Non vincola, libera."
Data di Pubblicazione: 16 dicembre 2021