SELF-HELP E PSICOLOGIA   |   Tempo di Lettura: 10 min

Togliere alcune "o" sostituendole con qualche "&"

Fattore & - Chiara Franchi - Speciale

Cambia il tuo modo di vedere te stessa e la tua vita, liberandoti così dai limiti che ti hanno imposto, leggendo l'anteprima del nuovo libro di Chiara Franchi.

Togliere alcune "o" sostituendole con qualche "e"

Buona o cattiva?

"L'arte del vivere somiglia più all’arte della lotta che a quella della danza,

per il doversi sempre tenere in guardia e ben saldi contro i colpi che cadono su di noi all'improvviso."

Marco Aurelio

Voglio partire con la “o” che, probabilmente, è la più importante di tutte. Ce la disegnano addosso fin dalla tenera età, praticamente sempre, praticamente a tutti. Sto parlando della “o” di buoni o cattivi oppure di — come nel mio caso, donna in carriera di quarantun anni, madre e figlia — buona o cattiva.

Sono buona o cattiva? Ti faccio uno spoiler: sono buona e cattiva, esattamente come lo sei tu che stai leggendo questo libro e che chissà quante volte ti sei sentita cattiva per qualcosa che hai fatto o non hai fatto.

Per farti sentire cattiva — in questo libro mi rivolgo a un pubblico femminile, ma molte considerazioni valgono anche per i “maschietti”, che forse così potrebbero iniziare a guardarci in modo diverso — a volte ci vuole poco.

A volte basta una marachella innocente per sentirti etichettare come “bambina cattiva”, e poi aver appiccicata addosso per la vita questa definizione.

A volte basta una madre che scuote la testa senza dire una parola quando torni a casa la sera dopo una giornata di quattordici ore filate in azienda e due trascorse imbottigliata nel traffico, perché qualcuno ha tamponato qualcun altro e tu devi quindi saltare la cena con tuo figlio e il tuo compagno.

Altre volte ancora basta lottare con le unghie e con i denti, e ottenere la tanto agognata promozione, magari a scapito di qualcun altro anche se tu hai solo fatto del tuo meglio e sei forse oggettivamente più capace, per sentirti etichettare come “stronza”, quando invece il tuo collega maschio, proprio per essere stato così aggressivo e determinato, si prende i complimenti dei suoi gregari.

E qui entrano in gioco anche gli stereotipi di genere: rispetto a un uomo, per una donna infatti è più facile sviluppare la convinzione di essere cattiva. Se sul lavoro sei determinata, appunto sei una stronza, se invece sul lavoro sei determinato, allora sei un duro.

Ho dedicato gran parte della mia vita lavorativa a costruirmi la fama della cattiva: a trentacinque anni, con un ruolo da direttore commerciale e una rete vendita di uomini dell'età di tuo padre da far trottare, non puoi permetterti il lusso di “essere buona” o nessuno ti rispetterà (questo, almeno, pensavo).

Così, ho investito energie per ispessire la scorza, per incarnare quel ruolo che prevedeva che io fossi inflessibile ogni volta che dovevo decidere della vita professionale di qualche agente o dipendente dell'azienda. Pochi sorrisi, niente chiacchiere e abiti austeri. Un lavoro faticoso e molto spesso inutile, ma l'ho capito solo con il tempo.

Ecco il motivo per cui ho deciso di scrivere questo libro: perché l'associazione tra l'essere credibile e autorevole e l'essere cattiva ha governato il mio agire per tanti anni e ha reso il mio cammino molto più tortuoso di quanto avrebbe potuto essere. Se possibile, mi piacerebbe rendere il tuo cammino un po’ più semplice di quanto sia stato il mio.

 

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Buona & Cattiva!

Molto spesso veniamo giudicati buoni o cattivi se facciamo o meno cose che gli altri si aspettano. L'aspettativa gioca un ruolo importante. Aspettativa basata su convinzioni e condizionamenti. Se facciamo qualcosa che gli altri si aspettano, in base a stereotipi, preconcetti o altro, allora veniamo guardati con amore e giudicati brave persone.

Il problema è che convinzioni e stereotipi, pur utili in alcuni contesti perché ci rendono la vita, evolutivamente parlando, più semplice (se incontri un brutto ceffo in un vicolo, di notte, è meglio, non sapendo di chi si tratta, scappare a gambe levate anziché fermarsi a scoprire chi è il losco figuro che si avvicina con fare in apparenza minaccioso), spesso traggono origine dall'educazione che abbiamo ricevuto: quante volte per esempio ti sei sentita apostrofare come “bambina cattiva” magari solo perché non volevi prestare la tua bambola preferita a una coetanea con la quale non avevi voglia di giocare?

Come se gli adulti, fra l’altro, manifestassero un grande entusiasmo quando si tratta di prestare i loro, di giochi, a estranei di cui sanno poco o nulla: chi dà volentieri il proprio iPhone a un collega o anche a un amico?

Per non parlare della scuola.

Ti comporti bene a scuola? Allora sei buona. Ti comporti male e disturbi in classe? Allora sei cattiva. Il che è un problema, perché a volte è meglio non comportarsi bene a “scuola” — e per scuola intendo pure il luogo di lavoro — se la scuola è ingiusta o non ha regole degne di essere rispettate.

La storia del secolo passato dimostra in modo inconfutabile che proprio tante bambine cattive e tanti bambini cattivi hanno permesso di trasformare il mondo dell’istruzione e del lavoro.

Essere etichettati come “troppo buoni”, d'altro canto, può rappresentare un problema. Nessun genitore si preoccuperebbe mai di avere un figlio troppo buono. Eppure anche questo è un giudizio che limita la libertà del bambino.

Mi viene in mente una mia amica del piccolo paese da cui provengo, Tarsogno, e della quale ovviamente ometto il nome.

Una bambina cresciuta a “pane e calcetto balilla”, in oratorio, abituata a sentirsi ripetere “fai la brava” ogni istante e a ricevere complimenti come “brava bambina” ogni volta che si comportava secondo le regole di genitori, parenti e catechisti.

Questa bambina — anche se di certo per una concomitanze di cause — è diventata un’adulta disposta a rinunciare alla propria felicità perché il prezzo da pagare, diversamente, sarebbe stato “fare la cattiva” o, meglio, fare qualcosa che avrebbe tradito le aspettative altrui.

E così è rimasta accanto a un compagno che non amava, pur di continuare a essere brava agli occhi degli altri. E quanti di noi — forse anche tu che leggi proprio ora queste parole - non sono capaci di fare quello che suggerirebbe il cuore, per continuare a “esseri bravi” o per il timore di “apparire cattivi” agli occhi di qualcun altro?

 

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Liberarsi dagli stereotipi

A volte violare le regole è l’unica cosa possibile: strapparsi il vestito da Cenerentola, indossare gli anfibi e iniziare ad arrampicarsi sulla più irta delle montagne.

Certo, è difficile ribellarsi se dentro la tua testa esiste anche solo l’idea che farlo sia un comportamento da bambine cattive, qualcosa che può deludere le aspettative altrui o viola lo status quo.

Rispettare le regole però non significa sempre “essere buoni”, così come violare le regole non significa sempre “essere cattivi”. Vengo da un paesello popolato da persone buone come il pane ma certamente permeato di una cultura un po' bigotta, incline al giudizio tranciante e alla regola secondo cui tutti devono essere brave persone, comportarsi come si deve, seguire la fila quando si entra in Chiesa, recitare le preghiere, e guai a uscire dal seminato.

Voglio bene a tutti coloro che in questo paese ho conosciuto e conosco, ma la mia vita professionale, in una grande città come Milano prima e in giro per il mondo poi, mi ha insegnato che esistono altri sistemi di regole, altre leggi, altri principi. Né migliori né peggiori, ma semplicemente diversi. E questa diversità rappresenta la linfa vitale che mi ha permesso di svestire alcuni panni e indossarne altri, e che permetterà a te, se vorrai percorrere insieme a me questo tratto di strada, di fare lo stesso.

Sulla base di tali premesse, dovrebbe essere chiaro che i concetti di “buono” e “cattivo” sono relativi. Molto dipende dal sistema di regole in cui siamo inseriti, ovvero dal “frame”, dalla cornice nella quale agiamo. Molto dipende da chi detta le regole sociali.

E a ciò si aggiunga che i giudizi sono spesso suscitati da episodi eclatanti e che raramente o mai si fondano su una media ponderata che tenga conto di tutti gli alti e di tutti i bassi (inevitabili) nella vita di una persona.

Io stessa in passato l’ho fatto tante volte. Ho giudicato sulla base delle apparenze, o di alcuni - pochi — comportamenti, in un senso o nell'altro. Ho etichettato come “buono” il tal collaboratore perché, magari, era disposto a sobbarcarsi anche un po' del lavoro altrui senza fiatare.

Ho etichettato invece come “cattivo” uno dei miei manager perché aveva un atteggiamento scorbutico con i suoi collaboratori o particolarmente duro durante i meeting. Era davvero buono quel collaboratore, oppure l'ho giudicato così perché in base ai miei standard, inculcati fin da piccola, il suo comportamento era tipico di una persona buona?

Ed era davvero cattivo quel manager, oppure, magari, nella vita privata era buono come il pane e dedito a cause benefiche, e la scorza dura che mostrava in ufficio era solo finalizzata a ottenere, secondo lui, il massimo vantaggio per l'azienda di cui faceva parte?

 

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Nessuno può conoscere qualcuno così bene da poterlo giudicare in modo inappellabile. Il che vale anche per te: chiunque ti giudicasse “buona” o “cattiva”, comunque sbaglierebbe, perché non sei una cosa o l’altra.

Si tratta purtroppo di un’inclinazione umana. Abbiamo fisicamente bisogno di etichettare le persone cristallizzandole per sempre in un personaggio come se non potessero essere mai considerate in modo diverso, e questo lo facciamo per semplificarci la vita, anche se in realtà ce la complichiamo: la nostra esistenza è un costante avvicendarsi di situazioni in cui “noi” siamo contro di “loro” e, inevitabilmente, “noi” siamo i buoni e “loro” sono i cattivi.

Quando mio figlio Alessandro mi costringe, più o meno bonariamente, a guardare le partite della sua amata Juventus, per quanto si astenga dagli insulti perché sa che non li apprezzo molto, è piuttosto chiaro chi siano i “cattivi”.

Persino l'arbitro viene giudicato negativamente quando concede una punizione a un giocatore della squadra avversaria, e la punizione è considerata “giusta” — un tifoso di calcio lo sa bene — se concessa a “noi” e non a “loro”.

Inoltre se si vince il merito è sempre nostro e se si perde, be’, è tutta colpa della sfiga (si chiama “self-serving bias”, o “bias dell'auto-attribuzione del merito”, atteggiamento mentale che consiste nell'attribuire a noi stessi il merito dei nostri successi e agli altri o alla sfortuna la colpa dei nostri insuccessi).

A questo proposito, da alcune ricerche in campo psicologico emergono risultati scioccanti: se si divide per gioco un gruppo di studenti in due squadre, si può notare come la creazione di due team contrapposti produca facilmente comportamenti molto aggressivi e soprattutto generi l’idea di un “noi” contro di “loro”.

Desideriamo tutti sentirci parte di un gruppo o di una comunità, abbiamo tutti un fortissimo bisogno di appartenenza e quindi di sentirci a posto con la coscienza: perché pensiamo di avere la coscienza “pulita” quando agiamo in modo tale da assicurare la continuità della nostra appartenenza e la coscienza “sporca” quando deviamo dalle norme del gruppo mettendole in discussione.

Il senso di appartenenza, ossia la percezione di far parte di un gruppo o di una comunità, ci rende, insomma, felici e ci permette di farci sentire più facilmente nel giusto etichettando gli altri come sbagliati.

Data di Pubblicazione: 23 giugno 2022

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