SPIRITUALITÀ ED ESOTERISMO

Trasformare la Sofferenza - Anteprima del libro di Thich Nhat Hanh

L'arte di generare la felicità

L’arte di trasformare la sofferenza">

L’arte di trasformare la sofferenza

TUTTI VOGLIAMO essere felici; nel mondo ci sono molti libri e insegnanti che cercano di aiutare le persone a essere più felici, eppure continuiamo tutti a soffrire.

Potremmo pensare che “stiamo sbagliando qualcosa”, quindi, e che per qualche ragione “non riusciamo a essere felici”. Non è vero: per assaporare la felicità non è necessario essere privi di sofferenza. Di fatto, l’arte della felicità è anche l’arte di soffrire bene. Quando impariamo a riconoscere, abbracciare e capire la nostra sofferenza, soffriamo molto meno. Non solo, siamo anche in grado di andare oltre e di trasformare la sofferenza in comprensione, compassione e gioia, per noi stessi e per gli altri.

Una delle cose più difficili da accettare è che non esista un regno dove c’è solo felicità e non c’è sofferenza. Ciò non significa che ci dobbiamo disperare: la sofferenza può essere trasformata. Appena apriamo la bocca per dire “sofferenza”, sappiamo che nello stesso momento è già presente anche l’opposto della sofferenza. Dove c’è sofferenza, c’è felicità.

Secondo la storia della creazione nel libro biblico della Genesi, Dio disse: “Sia la luce”. Mi piace immaginare che la luce abbia risposto, dicendo: “Signore, devo aspettare che il mio fratello gemello, il buio, sia con me. Non posso esserci senza il buio”. Dio chiese: “Perché devi aspettare? Il buio c’è già”. La luce rispose: “Allora ci sono già anch’io”.

Se ci concentriamo esclusivamente sulla ricerca della felicità, potremmo considerare la sofferenza qualcosa da ignorare o a cui opporre resistenza: la consideriamo qualcosa che ci ostacola sulla strada della felicità. Ma l’arte della felicità è allo stesso tempo anche l’arte di saper soffrire bene. Se sappiamo utilizzare la nostra sofferenza, possiamo trasformarla e soffriamo molto meno. Saper soffrire bene è un elemento essenziale per realizzare la vera felicità.

Sofferenza e felicità non sono separate

Quando soffriamo, tendiamo a pensare che in quel momento ci sia solo sofferenza e che la felicità appartenga a un altro luogo e a un altro tempo. Spesso ci si chiede: “Perché devo soffrire?”. Pensare che dovremmo essere capaci di condurre una vita del tutto priva di sofferenza è un’illusione come pensare che dovremmo riuscire ad avere un lato sinistro senza un lato destro. Lo stesso vale se pensiamo di avere una vita in cui non c’è assolutamente alcun genere di felicità. Se il lato sinistro dicesse: “Lato destro, te ne devi andare; non ti voglio, voglio esserci solo io, il lato sinistro” sarebbe una cosa insensata, perché allora dovrebbe smettere di esistere anche il lato sinistro. Infatti se non c’è destra non c’è neppure sinistra. Dove non c’è sofferenza non ci può essere neppure felicità e viceversa.

Se impariamo a vedere che sono presenti sia la felicità sia la sofferenza e a entrare abilmente in contatto con loro, andremo nella direzione di un’esistenza vissuta con più gioia. Ogni giorno faremo un passo in più in quella direzione e alla fine capiremo che sofferenza e felicità non sono due cose separate.

L’aria fredda può far stare male se non si indossano vestiti sufficientemente caldi, ma quando ci si sente accaldati o se si cammina all’aperto con un abbigliamento adatto, la sensazione tonificante dell’aria fredda può suscitare sensazioni di gioia e vitalità. La sofferenza non è una specie di fonte esterna, oggettiva, di oppressione e di dolore. Magari ci sono cose che fanno soffrire te, come una musica troppo alta o luci troppo forti, e che invece possono dare gioia ad altri. Ci sono cose che a te danno gioia e che infastidiscono altri: la giornata piovosa che ti rovina i piani per un picnic è una manna per l’agricoltore che ha il campo riarso.

La felicità è possibile proprio adesso, oggi - ma non può esserci felicità senza sofferenza. Alcuni pensano di dover evitare ogni sofferenza per essere felici, quindi sono costantemente preoccupati e all’erta. Finiscono per sacrificare tutta la loro spontaneità, libertà e gioia, e questo non va bene. Se sai riconoscere e accettare il dolore senza rifuggirlo, scoprirai che, nonostante la sua presenza, nello stesso tempo in te può esserci anche la gioia.

Alcuni dicono che la sofferenza è solo un’illusione, che per vivere saggiamente dobbiamo “trascendere” sia la sofferenza sia la gioia. Io dico il contrario: il sistema per soffrire bene e per essere felici è stare in contatto con ciò che sta succedendo nella realtà; così facendo si ottengono in compenso intuizioni profonde, liberatorie, sulla vera natura della sofferenza e della gioia.

Niente fango, niente loto

La felicità e la sofferenza sono di natura biologica, il che significa che sono entrambe passeggere e che sono in continuo mutamento. Quando il fiore appassisce diventa concime; il concime può servire a coltivare un altro fiore. Anche la felicità è di natura biologica e impermanente: può diventare sofferenza, e la sofferenza può ridiventare felicità.

Se si osserva in profondità un fiore si vede che è fatto soltanto di elementi di non-fiore. In quel fiore ce una nuvola: certo, sappiamo bene che una nuvola non è un fiore, ma senza la nuvola non può esserci il fiore. Se non ci sono nuvole non ce pioggia e i fiori non possono crescere. Non occorre essere un sognatore per vedere una nuvola che galleggia nel fiume: lì ce davvero la nuvola; ce anche la luce del sole. La luce del sole non è un fiore, ma senza la luce del sole non può esserci alcun fiore.

Se continuiamo a osservare a fondo il fiore vedremo molte altre cose - come la terra e i minerali - senza le quali un fiore non può esistere. E un fatto, dunque: un fiore è composto soltanto da elementi di non-fiore. Un fiore non può esistere da solo: può soltanto interessare con ogni altra cosa. La luce del sole, il terreno o la nuvola non si possono togliere dal fiore.

In tutti i Centri di pratica di Plum Village sparsi nel mondo, ce un laghetto di loti. Tutti sanno che occorre il fango perché i fiori di loto possano crescere. Il fango non ha un buon odore, mentre i fiori di loto hanno un ottimo profumo. Se non ce fango, il fiore di loto non si manifesta: non si possono coltivare fiori di loto sul marmo. Senza fango non può esserci nessun fiore di loto.

Naturalmente è possibile restare bloccati nel “fango” della vita; a volte è molto facile accorgersi di essere ricoperti di fango. La cosa più difficile da praticare è non lasciarsi prendere dalla disperazione. Quando si è sopraffatti dalla disperazione, ovunque si guardi si vede soltanto sofferenza; si ha la sensazione che ci stia capitando la cosa peggiore. Dobbiamo ricordare però che la sofferenza è una specie di fango che ci serve per generare gioia e felicità. Senza sofferenza non ce felicità, quindi non dovremmo avere pregiudizi nei confronti del fango. Dobbiamo imparare ad abbracciare e a cullare la nostra sofferenza personale e la sofferenza del mondo con molta tenerezza.

Quando vivevo in Vietnam durante la guerra, era difficile orientarsi in quel fango scuro e pesante; sembrava che la distruzione dovesse continuare per sempre. Ogni giorno qualcuno mi chiedeva se pensavo che la guerra sarebbe finita presto. Era molto difficile rispondere, perché non se ne vedeva la fine. Sapevo però che se avessi detto: “Non lo so”, questo non avrebbe fatto altro che innaffiare in loro i semi della disperazione; perciò quando mi facevano quella domanda rispondevo: “Tutto è impermanente, perfino la guerra; un giorno finirà”. Sapendolo potevamo continuare a lavorare per la pace. In effetti, poi la guerra finì. Adesso quelli che un tempo erano nemici mortali viaggiano avanti e indietro, impegnati in relazioni commerciali, e in tutto il mondo ci sono persone che praticano con gioia gli insegnamenti della nostra tradizione sulla consapevolezza e sulla pace.

Se sai fare buon uso del fango puoi coltivare bellissimi fiori di loto. Se sai fare buon uso della sofferenza, puoi generare felicità. Abbiamo davvero bisogno di un po’ di sofferenza per rendere possibile la felicità, e la maggior parte di noi ha abbastanza sofferenza in sé e intorno a sé per poterlo fare, senza bisogno di generarne altra.

Il Buddha soffriva?

Quando ero un giovane monaco ero convinto che il Buddha, una volta raggiunta l’illuminazione, non avesse più sofferto. Mi domandavo ingenuamente: “Che senso ha diventare un Buddha se poi si continua a soffrire?”. Certo che soffriva, il Buddha, perché aveva un corpo, sensazioni e percezioni, come tutti noi. Qualche volta avrà avuto mal di testa, probabilmente; qualche volta avrà avuto i reumatismi. Se gli capitava di mangiare un cibo non ben cotto avrà avuto problemi all’intestino. Soffriva fisicamente, dunque, e soffriva anche a livello emotivo: la morte di uno dei suoi amati studenti lo addolorò molto. Come si può non soffrire quando è appena morto un caro amico? Il Buddha non era di pietra, era un essere umano. Però sapeva come soffrire, perché era dotato di grande visione profonda, saggezza e compassione, e così soffriva molto meno.

Le quattro nobili verità

Il primissimo insegnamento dato dal Buddha dopo l’illuminazione riguardava la sofferenza. Si chiama Le Quattro Nobili Verità. Le Quattro Nobili Verità del Buddha sono queste: c’è la sofferenza, c’è un modo di agire che genera sofferenza; c’è la cessazione della sofferenza (cioè c’è la felicità) e c’è un modo di agire che conduce alla cessazione della sofferenza (ossia che genera la felicità).

La prima volta che si sente dire che la sofferenza è una Nobile Verità ci si potrebbe domandare che cosa ci sia di tanto nobile nella sofferenza. Il Buddha voleva dire che se sappiamo riconoscere la sofferenza, se la abbracciamo e ne osserviamo a fondo le radici, sappiamo lasciar andare le abitudini che la alimentano e possiamo trovare allo stesso tempo una via per essere felici. La sofferenza ha i suoi aspetti benefici: può essere un’eccellente maestra.

Dì che cosa è fatta la sofferenza?

Ce la sofferenza del corpo, che comprende le sensazioni date da dolore, malattia, fame e lesioni fisiche. Una parte di questa sofferenza è semplicemente inevitabile. Ce poi la sofferenza della mente, che comprende l’ansia, la gelosia, la disperazione, la paura e la rabbia. Abbiamo in noi i semi - il potenziale - della comprensione, dell’amore, della compassione e della visione profonda, come anche i semi della rabbia, dell’odio e dell’avidità. E vero che non possiamo evitare tutta la sofferenza della vita, ma se non innaffiamo i semi della sofferenza che abbiamo dentro possiamo soffrire molto meno.

Sei in guerra con il tuo corpo? Lo trascuri o lo punisci? Sei riuscito a conoscere davvero il tuo corpo? Ti senti “a casa” nel tuo corpo? La sofferenza può essere fisica o mentale, oppure entrambe; ogni genere di sofferenza comunque si manifesta in qualche parte del corpo e crea tensione e stress. Ci dicono che dovremmo rilasciare la tensione fisica. Molti ce l’hanno messa tutta per riuscirci! Vogliamo rilasciare la tensione fisica ma non ci riusciamo. I nostri tentativi di ridurre la tensione in noi non funzioneranno se prima non avremo riconosciuto che quella tensione c’è.

Quando ci si taglia un dito, ci si limita a lavarlo e il nostro corpo sa come guarirlo. Un animale che vive nella foresta, quando è ferito sa che cosa fare: smette di cercare qualcosa da mangiare o un partner con cui accoppiarsi: grazie a una conoscenza ancestrale, che risale a molte generazioni passate, sa che non sarebbe la cosa migliore da fare in quel momento. Così si trova un posto tranquillo e si limita a starsene sdraiato senza fare nulla. Gli animali, tranne gli esseri umani, sanno istintivamente che fermarsi è il modo migliore per guarire; non hanno bisogno di un medico, di una farmacia o di un farmacista.

Una volta anche noi esseri umani avevamo questo tipo di saggezza, con la quale però abbiamo perso i contatti. Non ci sappiamo più riposare: non permettiamo al corpo di riposare, di rilasciare le tensioni e di guarire.

Per gestire la malattia e il dolore ci affidiamo quasi esclusivamente alle medicine, mentre abbiamo già a disposizione i modi più efficaci per alleviare e trasformare la sofferenza, senza ricette mediche e a costo zero. Non sto suggerendo che si dovrebbero buttare via tutti i farmaci: alcuni di noi hanno davvero bisogno di usare certe medicine. A volte però possiamo assumerne dosi minori ottenendo un effetto molto migliore se sappiamo’ lasciar riposare davvero il corpo e la mente.

La medicina che guarisce

La principale causa di sofferenza della civiltà moderna sta nella nostra incapacità di gestire il dolore interiore, che cerchiamo di coprire con ogni genere di consumi. I commercianti mettono in campo una gran quantità di espedienti, classici e nuovi, per aiutarci a coprire la sofferenza interiore. Finché non riusciremo ad affrontarla, però, non potremo essere presenti e disponibili alla vita, e la felicità continuerà a sfuggirci.

Sono in tanti a provare una sofferenza enorme e a non sapere come gestirla. Molti cominciano a soffrire già da giovanissimi; perché dunque la scuola non insegna ai nostri ragazzi un modo per gestire la sofferenza? Se uno studente è molto infelice, non riesce né a concentrarsi né ad apprendere. La sofferenza di ciascuno influisce anche sugli altri; quanto più impareremo l’arte di soffrire bene, tanto più diminuirà la sofferenza nel mondo.

La presenza mentale è il modo migliore per stare con la propria sofferenza senza esserne sopraffatti. La presenza mentale è la capacità di dimorare nel momento presente, di sapere che cosa succede nel qui e ora. Per esempio, quando alziamo le braccia, siamo coscienti che stiamo alzando le braccia; la nostra mente è con il gesto di alzare le braccia e non è rivolta al passato o al futuro, perché alzare le braccia è ciò che sta succedendo nel momento presente.

Essere in presenza mentale significa essere consapevoli: è l’energia che sa che cosa sta succedendo nel momento presente. Sollevare le braccia è sapere che stiamo sollevando le braccia: questa è presenza mentale, è consapevolezza della nostra azione. Quando inspiriamo e sappiamo che stiamo inspirando, questa è consapevolezza. Quando facciamo un passo e sappiamo che lo stiamo facendo, siamo consapevoli dei passi. La consapevolezza è sempre consapevolezza di qualcosa; è l’energia che ci aiuta a essere coscienti di quello che succede proprio qui e ora, nel nostro corpo, nelle sensazioni, nelle percezioni e tutt’intorno a noi.

Con la consapevolezza, sai riconoscere la presenza della sofferenza in te stesso e nel mondo. E con quella stessa energia che abbracci teneramente la sofferenza. Essendo consapevoli dell’inspirazione e dell’espirazione si genera l’energia della presenza mentale, che permette di continuare a “cullare” la propria sofferenza. Coloro che praticano la presenza mentale possono aiutarsi e sostenersi gli uni con gli altri nell’opera di riconoscere, abbracciare e trasformare la sofferenza. Con la presenza mentale non abbiamo più paura del dolore; possiamo addirittura andare oltre e fare buon uso della sofferenza per generare l’energia della comprensione e della compassione che ci guarisce, e possiamo aiutare gli altri a guarire e anche a essere felici.

Generare la presenza mentale

Il modo per cominciare a produrre la medicina della presenza mentale è fermarci e fare un respiro cosciente, prestando tutta l’attenzione all’inspirazione e all’espirazione. Quando ci fermiamo e facciamo un respiro in questo modo unifichiamo corpo e mente, e torniamo a casa a noi stessi. Sentiamo più pienamente il nostro corpo; solo quando la mente è insieme al corpo siamo vivi per davvero. La notizia straordinaria è che l’unità di corpo e mente si può realizzare anche con un solo respiro. Forse è da un po’ che non siamo molto gentili con il nostro corpo; se ne riconosciamo la tensione, il dolore e lo stress, possiamo immergerlo nella nostra presenza consapevole e questo è l’inizio della guarigione.

Se ci curiamo della nostra sofferenza interiore abbiamo più chiarezza, energia e forza per essere in grado di affrontare la sofferenza dei nostri cari per la violenza, la povertà e l’ingiustizia, la sofferenza della nostra comunità e del mondo. Se invece siamo troppo occupati ad affrontare la nostra personale paura e disperazione, non possiamo dare una mano ad alleviare la sofferenza degli altri. Soffrire bene è un’arte: se sappiamo curarci della nostra sofferenza, non soltanto soffriremo molto meno ma potremo generare più felicità attorno a noi e nel mondo. 

Questo testo è estratto dal libro "Trasformare la Sofferenza".

Data di Pubblicazione: 2 ottobre 2017

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