SELF-HELP E PSICOLOGIA   |   Tempo di Lettura: 10 min

Traumi familiari ereditari

Trauma: come superarlo

Anteprima del libro "Non è Colpa Tua" di Mark Wolynn

Il passato non muore mai

«Il passato non muore mai: non è neppure passato».
William Faulkner, Requiem per una monaca

Una caratteristica ben documentata del trauma, nota a molti, consiste nella nostra incapacità di spiegare cosa ci succede. Non solo perdiamo le parole per dirlo, ma avviene anche qualcosa alla nostra memoria. Durante un evento traumatico i nostri processi mentali possono diventare talmente dispersivi e disorganizzati da non permetterci più di riconoscere determinati ricordi come facenti parte dell’evento originale.

Al contrario, frammenti di memoria, dispersi sotto forma di immagini, sensazioni corporee e parole, sono archiviati nel nostro subconscio e possono essere attivati successivamente da qualunque cosa sia anche lontanamente collegata all’esperienza originale. Una volta risvegliati, è come se fosse stato premuto un invisibile pulsante di riavvolgimento, che ci induce a mettere nuovamente in atto nella nostra vita quotidiana alcuni aspetti del trauma originario. Potremmo ritrovarci inconsciamente a reagire a determinate persone, eventi o situazioni in modi abituali e familiari, che echeggiano il passato.

Sigmund Freud ha identificato questo schema più di un secolo fa. La ripetizione traumatica, o “coazione a ripetere” come lui la definiva, è un tentativo dell’inconscio di riprodurre ciò che è irrisolto, per riuscire a “farlo nel modo giusto”. Questa spinta inconscia a rivivere gli eventi del passato potrebbe essere uno dei meccanismi in atto quando le famiglie tramandano i traumi irrisolti alle generazioni successive.

Anche Cari Gustav Jung, contemporaneo di Freud, credeva che ciò che resta a livello inconscio non si dissolva ma, piuttosto, ritorni a galla nelle nostre vite sotto forma di destino o fortuna. In altre parole, probabilmente ripetiamo i nostri modelli inconsci finché non li portiamo alla luce della consapevolezza. Sia Jung che Freud hanno notato che qualsiasi cosa sia troppo difficile da elaborare non si esautora da sola ma viene immagazzinata nel nostro inconscio.

I frammenti di esperienze

Entrambi osservarono che i frammenti di esperienze precedentemente bloccati, soppressi o repressi si palesavano nelle parole, nei gesti e nei comportamenti dei loro pazienti. Nei decenni successivi gli psicoterapeuti hanno concepito indizi quali i lapsus, le dinamiche degli incidenti o le immagini oniriche, alla stregua di messaggeri che gettavano luce su regioni inesprimibili e impensabili delle vite dei loro clienti.

I recenti progressi della tecnologia dell’ imaging hanno permesso ai ricercatori di distinguere le funzioni cerebrali e fisiologiche che “fanno cilecca” o si guastano durante gli eventi estremi. Bessel van der Kolk è uno psichiatra olandese noto per le sue ricerche sullo stress post-traumatico.

Egli spiega che durante un trauma il centro del linguaggio si spegne, al pari della corteccia prefrontale mediale, quella parte del cervello che sovrintende all’esperienza del momento presente. Lo studioso descrive il terrore inesprimibile del trauma come l’esperienza di essere a corto di parole, una situazione comune nella quale le vie cerebrali preposte al ricordare si bloccano durante i momenti di minaccia o pericolo.

«Quando le persone rivivono le loro esperienze traumatiche», afferma, «i loro lobi frontali compromessi si bloccano e di conseguenza hanno difficoltà a pensare e a parlare. Non sono più capaci di comunicare né a se stesse né ad altri cosa stia esattamente succedendo».

Tuttavia, non tutto è silente: parole, immagini e impulsi che si frammentano dopo un evento traumatico riemergono per formare il linguaggio segreto della nostra sofferenza, che portiamo sempre con noi. Nulla è perduto. I tasselli sono stati solo dirottati altrove.

Alcune nuove tendenze di ricerca nel settore della psico-terapia stanno cominciando a studiare i territori situati al di là dei traumi individuali, fino a includere gli eventi traumatici presenti nella storia familiare e sociale, ritenendoli una parte integrante del quadro generale. Alcune tragedie di vario tipo e intensità, quali l’abbandono, il suicidio e la guerra, oppure la morte precoce di un figlio, di un genitore, di un fratello o sorella, possono sprigionare onde d’urto di dolore che si ripercuotono da una generazione all’altra.

Gli sviluppi recenti nei campi della biologia cellulare, della neuroscienza, dell’epigenetica e della psicologia dell’età evolutiva sottolineano l’importanza di esplorare almeno 3 generazioni di storia familiare per poter comprendere il meccanismo che soggiace ai modelli di reiterazione dei traumi e del dolore.

L'insonnia

La seguente storia ne è un chiaro esempio. Quando incontrai Jesse per la prima volta, da più di un anno non riusciva a dormire per una notte intera. L’insonnia si leggeva sulle sue occhiaie scure, ma la vacuità del suo sguardo indicava la presenza di una storia più nascosta. Sebbene avesse solo 20 anni, Jesse ne dimostrava almeno 10 di più. Sprofondò sul mio divano come se le gambe non riuscissero più a sostenerlo.

Jesse mi spiegò che era stato un atleta famoso e che a scuola era il primo della classe, ma che la sua persistente insonnia aveva innescato in lui una spirale discendente di depressione e disperazione. Di conseguenza aveva abbandonato gli studi universitari e aveva dovuto rinunciare alla borsa di studio per il baseball che si era guadagnato con tanta fatica.

Era alla ricerca disperata di un aiuto per riportare la sua vita sul binario giusto. Nell’anno appena trascorso aveva consultato tre medici, due psicologi, una clinica del sonno e un medico naturopata. Nessuno di loro, mi disse con voce monocorde, era stato in grado di offrire una rivelazione o un vero aiuto. Tenendo lo sguardo quasi sempre basso mentre mi raccontava la sua storia, Jesse mi confessò di aver raggiunto il suo punto di rottura.

Quando gli chiesi se avesse qualche idea su cosa aveva innescato la sua insonnia, scosse il capo. Il sonno per lui non aveva mai rappresentato un problema. Poi una sera, subito dopo aver compiuto 19 anni, si svegliò all’improvviso alle 3:30 di notte. Sentiva molto freddo, tremava, era incapace di riscaldarsi a prescindere da ogni tentativo.

Tre ore dopo, sepolto sotto una pila di coperte, Jesse era ancora ben sveglio. Non solo aveva freddo ed era stanco, ma era in preda a una strana paura che non aveva mai provato prima, la paura che sarebbe potuto succedere qualcosa di terribile se si fosse concesso di riaddormentarsi. Se mi addormento non mi sveglierò più. Ogni volta che cominciava ad appisolarsi, la paura lo scuoteva facendolo risvegliare. Lo schema si ripeté la notte successiva e quella dopo.

Ben presto l’insonnia si trasformò in una tortura notturna. Jesse sapeva che la sua paura era irrazionale, tuttavia si sentiva incapace di porvi fine. Lo ascoltavo con attenzione. Notai subito un dettaglio insolito: aveva patito un estremo senso di freddo, definendolo “glaciale”, poco prima del primo episodio d’insonnia. Cominciai a esplorare questo dato con Jesse e gli chiesi se qualcuno dei suoi familiari da parte di madre o di padre avesse subito un trauma che coinvolgesse avere freddo, o essere addormentato, o avere 19 anni.

Jesse mi rivelò che sua madre gli aveva recentemente rivelato la tragica morte del fratello maggiore di suo padre, uno zio che lui non aveva mai saputo di avere. Lo zio Colin aveva solo 19 anni quando era morto di gelo mentre controllava delle linee elettriche durante una bufera di neve a nord di Yellowknife, nella regione dei Territori del Nord-Ovest del Canada.

Le tracce sulla neve rivelarono che aveva lottato per sopravvivere. Alla fine lo trovarono a faccia in giù durante la bufera, senza vita a causa dell’ipotermia. La sua morte rappresentò una perdita talmente tragica che la famiglia non lo nominò mai più.

Superare la morte

Trentanni dopo, Jesse stava inconsciamente rivivendo alcuni aspetti della morte di Colin, in particolare il terrore di abbandonarsi allo stato d’incoscienza. Per Colin, lasciarsi andare avrebbe significato morire. Per Jesse, l’atto di addormentarsi deve avergli suscitato la medesima sensazione.

Stabilire quel collegamento rappresentò un punto di svolta per lui. Una volta compreso che la sua insonnia traeva origine da un evento accaduto trent’anni prima, finalmente disponeva di una spiegazione per la sua paura di addormentarsi. Il processo di guarigione poteva avere inizio.

Servendosi di strumenti che acquisì durante il tipo di lavoro che svolgemmo insieme, e che sarà descritto nel corso del libro, Jesse riuscì a staccarsi dal trauma vissuto da uno zio che non aveva mai incontrato, ma del cui terrore si era inconsciamente fatto carico in prima persona. Non solo Jesse si sentì liberato dalla pesante nebbia dell’insonnia, ma acquisì anche un senso di maggiore connessione con la sua famiglia, presente e passata.

Nel tentativo di spiegare storie come quella di Jesse, gli scienziati oggi sono in grado di identificare i marcatori biologici: una prova che i traumi possono essere trasmessi da una generazione all’altra e che effettivamente lo sono. Rachel Yehuda, docente di psichiatria e neuroscienze alla Mount Sinai School of Medicine di New York, è fra i più noti esperti mondiali di PTSD, una vera pioniera in questo campo.

Nei suoi numerosi studi Yehuda ha esaminato la neurobiologia di tale disturbo nelle persone sopravvissute all’Olocausto e nei loro figli. In particolare, la sua ricerca sul cortisolo (l’ormone dello stress che aiuta il nostro corpo a tornare alla normalità dopo aver vissuto un trauma) e i suoi effetti sulle funzioni cerebrali ha rivoluzionato la comprensione e il trattamento del PTSD a livello mondiale.

(Le persone affette da PTSD rivivono emozioni e sensazioni associate a un trauma, nonostante esso sia avvenuto in passato. I sintomi includono depressione, ansia, torpore, insonnia, incubi, pensieri spaventosi e la propensione a trasalire facilmente o ad avere i nervi “a fior di pelle”).

Yehuda e colleghi hanno scoperto che i figli dei sopravvissuti all’Olocausto che soffrivano di quel disturbo nascevano con bassi livelli di cortisolo, simili a quelli dei loro genitori, e che ciò li predisponeva a rivivere i sintomi del PTSD della generazione che li aveva preceduti. La sua scoperta della presenza di bassi livelli di cortisolo in persone che subiscono un grave evento traumatico è risultata controversa, poiché contraria al ben noto concetto che lo stress è associabile ad alti livelli di cortisolo. In particolare, in caso di PTSD cronico, la produzione di cortisolo può venire soppressa, influendo sui bassi livelli misurati sia nei sopravvissuti sia nella loro prole.

Questo testo è estratto dal libro "Non è Colpa Tua".

Data di Pubblicazione: 15 gennaio 2018

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