Quando siamo chiamati a guarire, siamo chiamati a evolvere. Se non evolviamo, non guariremo. Scopri di più leggendo l'anteprima del libro di Raffaele Fiore.

Verso un olismo autentico

Nonostante il mondo sembri ormai votato a una svolta olistica, tutte le buone premesse per ottenere un nuovo livello di coscienza, per ora, sono ancora fallimentari. Esiste un’ideologia olistica, ma non una prassi, cioè c’è grande interesse nell’approfondire e indagare questa tematica, ma poi raramente viene messa davvero in pratica. Apparentemente tutti sanno tutto e nessuno riesce a fare niente. Ce ne si accorge dalla modalità con cui la maggior parte dei pazienti pone richiesta di cure olistiche. Il problema, forse non lo si è ancora capito, non è interpretare o centrare il rimedio, ma è partecipare alla sua azione da entrambe le parti. Quali sono queste parti? Semplice: il paziente e il curante. Per ottenere questa collaborazione ideale si trovano le stesse difficoltà che si incontrano nella prassi quotidiana degli stati meditativi (evito di utilizzare inglesismi o altri termini affascinanti per parlare di qualcosa che esiste già da diecimila anni).

Prendere un rimedio naturale significa alzare il livello della percezione interiore, perché esso non si sostituisce affatto alla chimica dell’organismo, né svolge un’azione repressiva e violenta su uno stato infiammatorio o autoimmune. Il rimedio naturale tende a riportare armonia in un’orchestra in cui questa è andata perduta. L’orchestra è di proprietà dell’individuo che viene curato e quindi quest’ultimo non può occuparsi d’altro mentre il rimedio agisce: non può esimersi dall’accordare tutti gli strumenti per l’esecuzione della sinfonia della propria vita. Quando noi medici ci soffermiamo con i pazienti a discutere di argomenti di lana caprina, come alcuni aggiustamenti dei dosaggi o le interpretazioni statistiche sull’effetto di un certo rimedio, ci spostiamo su un piano preminentemente mentale che non giova a nulla, tanto meno alla guarigione. Dovremmo invece sintonizzarci meglio sul corpo fisico e sentire con l’apertura del cuore, quindi senza atteggiamenti ipocondriaci o ansiosi, le lievi modificazioni che certe molecole agiscono dentro di noi. Se non si ha questa predisposizione al lavoro, meglio lasciare onestamente l’olismo dov’è e ritornare all’aspirina, al betabloccante o al cortisonico, perché stiamo perdendo il nostro tempo.

A proposito di approccio olistico, ci sono una serie di sostanze che da qualche anno introduco costantemente in terapia. A qualcuno potrà sembrare un gesto meccanico: mi dispiace contraddire questa convinzione. Di solito utilizzo strumenti molto sofisticati per giungere alle decisioni terapeutiche, sui quali non posso e non voglio inoltrarmi, ma comunque ogni volta che emerge l’opportunità di utilizzare un rimedio integrativo, una vitamina o un fitoterapico, mi interessa che tale aggiunta venga letta con uno sguardo più ampio soprattutto dal paziente. Questo perché ogni singolo paziente continua a portare all’attenzione del terapeuta un solo organo o un solo apparato e, nonostante a parole dica il contrario, vede la singola parte separata dal tutto.

Il paziente ha difficoltà a metter in relazione stretta l’intestino tenue e il cuore, per esempio, oppure il rene e il fegato, il fegato con l’occhio e il rene con l’orecchio (conoscenze di uso quotidiano per qualunque agopuntore). Ogni molecola che viene introdotta nel nostro corpo ha inevitabilmente un nome perché i processi scientifici vogliono definire, controllare e, di conseguenza, limitare l’azione di un composto a un singolo ambito. Ma se io agisco, per esempio, sulla respirazione cellulare, inevitabilmente agisco anche sulla respirazione polmonare, sulla respirazione della pelle e su tutto ciò che è “respirazione” in senso simbolico e analogico nel mio cosmo interiore (e anche oltre, per gli addetti ai lavori). Tutto questo, se sono un paziente, sono obbligato ad accettarlo: in caso contrario, finirei per non percepire le sottili trasformazioni poietiche che avvengono mentre una sostanza agisce dentro di me.

 

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Donne che sanno

La grande crisi di questa epoca consiste nel volere prevedere cosa dovrei provare durante un’esperienza e nel non riuscire a realizzare un’esperienza per ciò che è, senza dargli nome. Per guarire veramente dobbiamo smettere di definire, smettere di controllare, smettere di lamentarci. Che fare allora? Essere presenti, ascoltare le variazioni senza giudizio, soffocare la mente razionale. Questo perché le distrazioni dell’ego sono talmente potenti e infinite, per come è stato costruito il mondo materiale da trent'anni a questa parte, da essere un vero e proprio impedimento al successo clinico.

L’ultimo baluardo della saggezza del corpo apparteneva alle donne, ma tutte coloro che si sono allontanate dall’allattamento naturale e che hanno colluso con la medicalizzazione del parto hanno perpetrato il tradimento più alto nei confronti della propria natura. Oggi le streghe non vengono più bruciate perché si stanno bruciando da sole: inconsapevolmente esse stesse hanno messo in atto un processo autodistruttivo. Questo mondo senza maghe, senza streghe, senza “donne che sanno” ha perso la relazione privilegiata con la natura. La medicina ha fagocitato il femminile virilizzandolo e in questo modo ha distrutto buona parte del suo potere infinito. Ci sono ambiti inaccessibili alla scienza e che sono tali anche per via degli strumenti inadeguati con cui ci si avventura in questi territori insondabili.

Solo apparentemente c’è la possibilità di dare un nome e un’identità a una sostanza utilizzata in terapia: in realtà il 95% di essa rimane un mistero insondabile. Lo leggiamo tra le righe delle fantasiose narrazioni degli effetti collaterali dei bugiardini. Avete mai riflettuto sugli effetti delle statine usate per abbassare il colesterolo, che potrebbe benissimo essere tenuto a bada con olio di Krill e con una dieta priva di zuccheri e farine? Pensavate di grassi?

Mi dispiace, vi hanno ingannato! In definitiva, è più facile svelare una sostanza tramite processi analogici e simbolici che attraverso la sua composizione chimica. Se ci si apre alla dimensione occulta, quella stessa sostanza rivela molto di più che al microscopio. Il problema è che il dilagante interferire di quell’atteggiamento arimanico che si chiama “mentalismo ipercontrollante” produce diffidenza nei confronti dell’intuizione, della dimensione occulta, del pensiero unificato. Così la verità viene oscurata dalla stessa mente che la osserva. Quando siamo chiamati a guarire, siamo chiamati a evolvere. Se non evolviamo, non guariremo: è un dato di fatto. Il miracolo esiste!

È un’evoluzione immediata data da un elemento dell’anima che la medicina ufficiale non contempla mai: la fede, cioè la fiducia. L’immaginario e le parole sono infinitamente utili ai fini della guarigione. Essere colti agevola moltissimo la conoscenza di sé e del mondo, ma al contempo ci può dare la falsa impressione di poter “controllare” tutta la realtà e di avere accesso alla verità assoluta di tipo causalistico. Questo è un grande danno. Si guarisce quando si lascia fare al corpo ciò che sa fare, quando ci si abbandona con umiltà e fede alla vis medicatrix naturae, la forza guaritrice della natura. Altrimenti si entra nel dedalo d’infiniti percorsi terapeutici dai successi parziali e temporanei.

 

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La natura che guarisce

Il mio professore di Patologia Generale un giorno disse: «La maggior parte delle patologie che vedrete si risolveranno da sole, voi sarete solo spettatori attivi del fenomeno della natura che guarisce». Fino a quarant'anni fa circolavano medici di tale lignaggio e fattura. Oggi gli esami di ammissione a medicina hanno maglie severe che selezionano i candidati in modo che non proferiscano mai più frasi di questo tipo negli atenei. Certo, la natura è programmata a guarire sé stessa, se glielo lasciamo fare, se non interveniamo con saccenteria, arroganza e desiderio di potere sulla materia.

Da qualche anno è diventato quasi indispensabile un rimedio che spesso prescrivo: il coenzima Q10, detto anche ubichinone. Il nome stesso, che contiene la parola ubiquo (onnipresente) ci suggerisce che questa sostanza dovrebbe essere ovunque e quindi, per deduzione, dovrebbe avere un’infinità di applicazioni. L’ubichinone, che qualcuno assimila al concetto di vitamina Q, è una sorta di servitore mercuriale che va dove serve e, a guardar bene i metabolismi cellulari, serve veramente in una molteplicità di ruoli biochimici.

È coinvolto per esempio nelle trasformazioni del cibo in energia, è fondamentale nella costituzione delle membrane cellulari e partecipa all’accumulo e alla liberazione di ATP, il composto ad alta energia necessario nella quasi totalità delle reazioni metaboliche, quindi direi che è essenziale al fine stesso della vita. Stranamente il “benessere” economico e sociale dell’Occidente e soprattutto la protezione farmacologica che spesso viene fatta in forma preventiva ad alcuni malati hanno ridotto drasticamente la presenza di Q10 nel nostro corpo.

L’omotossicologia, cioè l’omeopatia della modernità, se ne è accorta subito e costantemente si occupa della stimolazione di questa molecola nel mondo intracellulare. A ridurre l’ubichinone sono ad esempio le statine, entrate nella prassi clinica come presidi fondamentali per proteggere dagli alti livelli di colesterolo. Tali farmaci sono anche probabili cause di rabdomiolisi, cioè un grave danno al muscolo scheletrico, e nel nostro corpo avviano una battaglia nei confronti di tutti i grassi, anche quelli utili. Attaccare i grassi in modo non selettivo ci espone a malattie molto gravi, per esempio riduce i processi di guarigione nelle fasi intermedie fra gli attacchi di sclerosi multipla e interferisce violentemente sulla sintesi degli ormoni che hanno come base il colesterolo, come quelli sessuali. La prassi chimica ufficiale vuole ignorare quella legge dell’alchimia in cui “messaggi deboli stimolano, messaggi prepotenti inibiscono e messaggi uguali lasciano tutto com’è”.

Ci sono altri ambiti in cui attualmente dovrebbe essere somministrato costantemente il coenzima Q10: nelle malattie cardiovascolari, nel morbo di Parkinson, nel diabete e, soprattutto, nei tumori. Sono tutte condizioni profondamente ancora presenti nella nostra società. È vero che esiste una vera patologia da deficit di Q10, ma in realtà è molto rara. È una malattia mitocondriale, cioè dell’organo più affascinante e misterioso della cellula, compare già nell’infanzia e ha una forte componente ereditaria che si rende manifesta solo attraverso uno stato infiammatorio che quasi sempre prende le mosse da un eccesso di glucosio nella dieta.

 

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Sì, di zucchero, quello che prendiamo per ottenere energia e che in realtà ha la diabolica capacità di dare energia a una sola cosa: l’infiammazione. La malattia da deficit di Q10 che insorge nell’infanzia produce insufficienza renale, spesso colpisce il cervelletto interferendo su equilibrio e postura e induce una drastica e profonda debolezza muscolare. Questa triade, se molto intensa, può minare i processi di evoluzione psichica e comportamentale. Al di là di questa rara patologia, tutti i deficit di Q10 ai quali assistiamo nell’epoca moderna sono dati in buona parte da problemi alimentari, stress e farmaco-terapie inadeguate.

Per esempio, è molto frequente che ai soggetti che hanno avuto un infarto venga data una statina, ma guarda caso è proprio in questa fase, nel recupero funzionale del circolo arterioso e nei postumi di angina pectoris, che il Q10 è essenziale. È tale proprio perché, se viene integrato in terapia, nel giro di poche settimane riduce drasticamente un fattore di rischio fondamentale, cioè l’ipertensione. Non dimentichiamo che tutto ciò che ha a che fare con il circolo intreccia una relazione stretta con il mondo delle acque e delle emozioni e con il mondo dell’eliminazione dei liquidi in eccesso.

Pensiamo a tutti quegli edemi, come il gonfiore alle gambe o i versamenti polmonari, dove l’ubichinone sembra essere davvero indispensabile. Alcuni medici stanno provando a introdurlo nella terapia delle cefalee e mi sembra una buona idea, perché ho sempre notato che nei cefalalgici c’è una cattiva relazione con il ritmo del respiro e soprattutto una grossa difficoltà a contattare questa dimensione. Se riusciamo ad allargare il nostro pensiero, capiremo che mettendo in ordine il “polmone” della cellula, cioè il mitocondrio, mettiamo in ordine anche il grande polmone e con esso tutto ciò che gli somiglia: cioè la pelle, il grosso intestino e tutta la nostra relazione tra l’ossigeno e la vita. Quando respiriamo, mentre siamo impegnati a fare altro, il cielo atmosferico incendia la nostra vita e il nostro sangue. Chi pratica costantemente yoga, qi gong o forme meditative arcaiche si accorge che il coenzima Q10, con la sua presenza o la sua assenza, condiziona il matrimonio tra l’uomo e l’elemento aria.

Molti alimenti rappresentano una riserva preziosa di ubichinone: tutti i pesci grassi, soprattutto quelli azzurri (come salmone, tonno, sardine e sgombri), la soia, gli spinaci, l’olio d’oliva, le noci, le nocciole, le mandorle e in genere la frutta secca (di cui non abusare mai in quanto fonte di Omega 6). Spesso i vegetariani e i vegani sono sprovvisti di Q10 in modo preoccupante ma non mi sembra che ci sia nulla di naturale nel doverne introdurre almeno 100 mg al giorno in forma di integratore per avere una buona qualità della vita.

Anche in questo caso il fai da te è molto pericoloso perché in alcuni casi bisogna eccedere con la dose e in altri bisogna moderare. Lo si può capire attraverso una visita ben fatta e anche da una serie di indizi che apparentemente sembrano portare in un’altra direzione. La relazione stretta tra il coenzima Q10 e la permeabilità intelligente della membrana cellulare ci dice quanto questa sostanza sia profondamente coinvolta nelle patologie tumorali, che sono caratterizzate spesso da asfissia nei processi metabolici e da una potente acidosi indotta da radicali liberi.

Quando una persona sente il bisogno di ripulirsi, quando ha la sensazione di non riuscire a svuotare completamente l’intestino, quando non vengono le parole e quando siamo abitati da ansie immotivate, cioè quando facciamo di un granello di sabbia una montagna, il nostro apparato biopsichico in buona parte chiede Q10. Non dobbiamo nemmeno ricopiare quegli stupidi modelli pubblicitari che suggeriscono che l’energia sia sempre positiva. Noi non abbiamo bisogno né di poca né di troppa energia, ma di quella necessaria in quel momento. La nostra partecipazione ai fenomeni del corpo fisico deve essere costante.

Data di Pubblicazione: 21 settembre 2021

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