Scopri la via illuminata dell'Ashtanga Yoga e ritrova la tua spiritualità grazie a questa antica pratica, leggendo l'anteprima del libro di Stefania Valbusa.

Avvicinarsi alla pratica dell'Ashtanga Yoga

Yama e Niyvama

Seguendo l'ordine logico dato da Patanjali nei suoi Yoga Sutra, lo studio dell’Ashtanga Yoga come ottuplice sentiero dovrebbe partire da yama e niyvama. Tuttavia è difficile nello yoga moderno iniziare il praticante a partire dall’osservanza di astensioni e prescrizioni. Infatti, come bene evidenziato da Federico Squarcini, «lo scopo degli yama è dunque quello di non obbedire ai comandi della “volontà istituita” ossia un dire no a quello che ci accade di volere e di voler fare. Di contro lo scopo di niyama è di spronare l'ambizione verso esperienze non volute, ossia un dire sì a quello che non ci accade di volere e di voler fare».

La pratica di asana, secondo i principi di abhyasa e vairagya, viene eletta a veicolo che, partendo dall’esperienza immediata ed empirica del corpo, permette di arrivare alla progressiva integrazione dei primi due rami nel nostro sadhana.

Attraverso una pratica costante e volta alla ricerca, infatti, andiamo progressivamente a sviluppare il senso di rinuncia a fare cose che vorremmo fare, integrando yama, le cinque astensioni (ahimsa, non nuocere, satya, non dire falsità, asteya, non rubare, brahmacarya, non compiere attività sessuale, aparigraha, non trattenere nulla per sé) e ad ambire a nuove esperienze integrando niyama, le cinque prescrizioni (sauca, pulizia, santosa, appagamento, tapas, ardore nella disciplina, svadhyaya, studio personale, Ishvara pranidhana, devozione a Dio).

L'avvicinarsi alla pratica dell’Ashtanga Yoga a partire da asana permette di sperimentare innanzi tutto il piacere e la gioia del movimento del corpo nello spazio e risvegliare, attraverso di esso, una maggior consapevolezza di noi stessi.

Al di là del significato letterale degli yama, astenersi dal nuocere all’altro, l'esercizio della violenza, della falsità, dell’appropriazione, dell’attività sessuale e del trattenere le cose per sé, possono esprimersi anche in comportamenti a prima vista innocenti. Ad esempio, violenza è anche una parola poco gentile che alza un muro con l’altro, così come la falsità può esprimersi con una sovraesposizione sui social per raccontare quello che non si è.

Nella pratica yoga, ahimsa è legato al rispetto del proprio corpo e dei suoi tempi nell’approccio agli asana o, come insegnante, nel rispetto del corpo dell'allievo, del suo percorso, e nel non abusare della posizione di vantaggio data dal ruolo per manipolare l'allievo.

 

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Satya è onestà intellettuale nel proprio percorso, non vivere nella menzogna e non mentire a se stessi nutrendo comportamenti e pratica degli asana con il nostro ego.

Asteya consiste nel non appropriarsi di meriti non propri nella pratica degli asana o non rubare l’esperienza all'allievo imponendo limiti alla sua crescita o al contrario traguardi non ancora alla sua portata.

Brahmacarya indirizzare l'energia sessuale nel mantenere il vigore verso la ricerca spirituale, ma anche non approfittare, come insegnante, della posizione di vantaggio per esercitare pressioni o adottare comportamenti caratterizzati sessualmente.

Aparigraha è il non identificarsi col movimento ma trascendere l’asana accettando l'evoluzione della pratica nella vita con i suoi alti e bassi. Con aparigraha si compie lo sradicamento del senso di possesso legato all’ego, al senso di «io sono» che afferma il proprio campo espandendosi agli oggetti o, in questo parallelismo, agli asana.

Analizzando gli niyama dal punto di osservazione della pratica degli asana, con sauca intendiamo la pulizia del corpo, il processo di disintossicazione attivato dal fuoco della pratica stessa.

Con santosa, intendiamo la capacità di accettare le cose che non possiamo cambiare e essere soddisfatti comunque della nostra pratica.

Tapas, l’autodisciplina, ci guida nella costanza della pratica per raggiungere l’eccellenza, il nostro meglio sulla base delle nostre possibilità.

Svadhyaya indica l’approfondimento dello studio personale, dedicando il proprio tempo all’apprendimento e alla profondità della pratica.

Ishvara pranidhana, devozione a Dio, invita ad abbandonare il proprio ego e arrendersi all’aspetto spirituale della pratica che non è fondata in noi ma nel divino insito nel processo della materia.

Asana, Pranayama, Pratyahara

Asana

All’interno del metodo proposto da Patanjali e delineato dagli otto rami, gli asana sono un mezzo per alleviare le afflizioni, klesa, e giungere al samadhi.

Federico Squarcini ha evidenziato il ruolo di Krishnamacharya come traduttore della tradizione. In questa prospettiva, Krishnamacharya prima e Pattabhi Jois dopo, hanno dato enfasi al ramo degli asana come pilastro dello yoga moderno mantenendone le premesse metafisiche, senza quindi ridurlo a mera ginnastica.

Tuttavia, questo taglio dello yoga moderno ha generato un fraintendimento tra molti praticanti che vedono gli asana come un fine e non come un mezzo. Nel mondo occidentale tale prospettiva ha reso lo yoga digeribile e allineato da un lato al sottofondo di cultura cattolica che accetta lo yoga solo ridotto a ginnastica e privato dell'aspetto ideologico, dall’altro alla visione edonistica di yoga come lifestyle e fenomeno di marketing.

Il punto di vista che porteremo avanti nel nostro libro riconosce agli asana il valore di avvicinare il praticante alla disciplina yoga attraverso la pura gioia del movimento. Infatti la leva che permette di sviluppare abhyasa e vairagya, una pratica costante e creativa basata sul non attaccamento, sta proprio nel sentire con piacere il corpo muoversi nello spazio e potersi esprimere nella consapevolezza di un moto armonico. Il fine della pratica degli asana non sono gli asana stessi ma acquisire quella stabilità fisica e mentale necessaria a continuare il proprio sadhana verso i rami successivi. Questo bilanciamento armonico avviene quando asana è stabile e confortevole, shtirasukha.

Nello Yoga Sutra si parla anche dell’allentamento dello sforzo come causa della realizzazione di asana stesso. Tale affermazione ha spesso creato un fraintendimento nei praticanti che l’hanno interpretata nel senso di evitare lo sforzo cercando nel mero rilassamento la via per l'equilibrio e per la consapevolezza. Dona Holleman ha fatto luce su questo punto e, nell’ambito degli asana, parla di transitare nella posizione da uno stato tamasico a uno stato sattvico passando dall’elemento rajasico la cui natura è quella di uno sforzo volto ad allentare lo sforzo, il non-fare del corpo e della mente.

Nell’Ashtanga Yoga lo sforzo, legato alla pratica di asana via via più impegnativi, trova la sua legittimità nella misura in cui viene disciplinato dal respiro, bilanciando le forze fisiche ed energetiche del praticante nel trishtana.

 

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Pranayama

Nella tradizione dell’Ashtanga Yoga, lo studio del pranayama viene affrontato solo dopo che il praticante ha completato la Serie Intermedia. Durante il percorso lungo la Prima Serie e la Serie Intermedia, infatti, il praticante ha purificato e riequilibrato il corpo e il sistema nervoso andando ad acquisire la stabilità nel flusso, sentendo lo spazio interno respiratorio e il ritmo del vinyasa ad esso legato.

Tali premesse sono la base per poter affrontare il pranayama come insieme di tecniche respiratorie basate su inspirazione, espirazione, ritenzione del respiro o kumbhaka. Il kumbhaka non equivale tanto alla sospensione del respiro quanto al mantenimento di uno stato energetico interno durante la ritenzione del respiro, che struttura la mente dissolvendo i vari samskara.

Quindi il praticante può affrontare il pranayama solo quando ha acquisito, attraverso la pratica degli asana, la stabilitas del sistema cognitivo mediante l'equilibrio energetico sottile che in questo libro verrà identificato come movimento toroidale.

Pratyahara

Il pratyahara, ritenzione dei sensi, rappresenta l’anello di congiunzione tra lo yoga esterno (costituito da yama, niyama, asana e pranayama) e lo yoga interno, raja o regale (espresso da dharana, dhyana e samadhi).

Se con lo yoga esterno il praticante raggiunge la stabilità mentale educando i sensi ad essere controllati e disciplinati come modalità dell’azione che diviene abile e consapevole, nello yoga interno la ritenzione dei sensi fa parte della modalità di conoscenza e percezione chiara e non mediata delle realtà ultime delle cose attraverso il samyama la correlazione continuativa e progressiva tra dhbarana, dhbyana e samadhi.

Dharana, dhyana, samadhi

Lo yoga è scienza empirica, soggettiva, a partire da un punto di osservazione interno. Infatti, la differenza tra la scienza classica — basata sull’osservazione della manifestazione esterna di fenomeni — e la scienza basata sullo yoga è che in quest’ultimo il punto di osservazione è interno, l’osservato e l’osservante coincidono.

Durante la pratica dello yoga ci confrontiamo con prakriti, la materia, intesa come un fenomeno in continuo divenire. Tuttavia l'osservazione non è dall’esterno: avviene dall'interno — facendone parte — cambiando il nostro punto di osservazione dietro il divenire della materia. Tale cambiamento del punto di osservazione si verifica nella misura in cui cambiamo il modo di rapportarci con noi stessi e l’ambiente che ci circonda. Yoga Sutra di Patanjali — libro di riferimento dello yoga moderno — è un testo essenziale, in quanto espone un metodo, una strategia sistematica, per rapportarsi con prakriti, la materia.

 

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Nel terzo capitolo degli Yoga Sutra, Vibhuti pada, i primi tre sutra rispondono alle domande su cosa sono dharana, dhyana e samadhi.

Dharana, la concentrazione, è consapevolezza dell'oggetto sul quale ci si concentra intervallata da interruzioni date da distrazioni, vikshepa, legate al fatto che siamo solo ai primi stadi di profondità nella meditazione. Gli asana preparano il corpo alla stabilità affinché non sia esso stesso un vikshepa, una distrazione, durante la meditazione. La pratica avanzata di asana porta all’atteggiamento meditativo, quindi alla stabilità dei sensi durante il flusso del vinyasa, che predispone alla vera e propria meditazione.

Dhyana, concentrazione senza interruzione, flusso ininterrotto del contenuto della coscienza che avviene quando in dharana vengono eliminate le distrazioni. Affinché venga mantenuta la concentrazione senza interruzione, il praticante deve mantenere anche la consapevolezza di dhyana, cioè che si sta praticando la concentrazione ininterrotta. Questo significa che la meditazione è comunque una azione anche se a livello sottile. 

Quando la coscienza diventa un tutt'uno con l'oggetto della concentrazione, dhyana diventa samadhi, ossia la perdita di consapevolezza che si sta praticando la concentrazione. Nel samadhi il concetto di azione nella meditazione è superato perché non c'è coscienza né del processo di concentrazione, né del Sé in quanto agente della concentrazione: la coscienza è solo sull’oggetto, sabija samadhi.

Nel primo libro degli Yoga Sutra si coglie il passaggio da sabija samadhi a nirbija samadhi, samadhi senza seme, pura consapevolezza senza oggetto, esito della ricerca spirituale in cui la coscienza, il soggetto «vedente» non è più dipendente dall'oggetto, dal «visto».

Cessa in tal modo il contatto, samyoga, tra il vedente, il Sé, drahsta o purusha, e il visto, il non Sé, la natura, drishya o prakriti, così che il vedente, drahsta, possa stazionare nella forma che gli è propria, svarupa.

Yogas cittavrttinirodhah

Tada drastuh svarupe 'vasthanam.

Di conseguenza la condizione finale a cui si giunge con l'adempimento degli otto rami del krama, il metodo proposto da Patanjali, è l’isolamento del purusha da prakriti, ossia il kaivalya, descritto nel Kaivalya pada, il quarto libro degli Yoga Sutra.

Data di Pubblicazione: 11 ottobre 2021

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