SPIRITUALITÀ ED ESOTERISMO

Viaggio interiore tra le piante e gli spiriti dell'Amazzonia

La Foresta Interiore - Michele Maino - Speciale

Inizia il viaggio nelle selvagge terre dell'Amazzonia alla scoperta degli spiriti ancestrali, figli di Madre Natura, leggendo il nuovo libro di Michele Maino.

Viaggio interiore tra le piante e gli spiriti dell'Amazzonia

15 aprile - Destinazione Amazzonia

Non senza una certa dose di preoccupazione, ci avviciniamo all’aeroporto di Linate. L’auto si ferma davanti all’unico ingresso aperto, presidiato da militari nascosti in tute mimetiche e mascherine chirurgiche.

A sorpresa, anche mio padre è venuto a salutarci. Lo intravedo in piedi, con la sigaretta in bocca, accanto ai soldati. Ci fermiamo a parlare qualche minuto vicino all’ingresso. "Bisogna essere matti per fare queste cose!", esordisce con un sorriso teso.

Simona risponde che i matti mandano avanti il mondo. Segue un confuso tentativo da parte di papà di distinguere matti e pazzi che si risolve indicando i primi come virtuosi e i secondi come pericolosi. Il suo sforzo di risemantizzare la malattia mentale si conclude però velocemente, lasciando a me e Simona l’incertezza di appartenere alla prima o alla seconda categoria.

"Non ti preoccupare, papà. Sono stato in situazioni molto più pericolose di una pandemia nella mia vita. Ti ricordi quand’ero in Cisgiordania durante la guerra tra Israele e Libano, nel 2007? In confronto l'Amazzonia è una passeggiata...".

Papà liquida le mie parole con: "Ma che guerra e guerra!".

Non si ricordava di quel conflitto? O il Covid-19, insidiando molto di più la sua tranquillità, gli sembra più concreta e grave?

Non c’è tempo per approfondire, l’aereo non aspetta. Ma io riesco a vederlo, sotto i suoi baffi, quell’aspetto nascosto del suo sorriso che tradisce l'orgoglio di un padre di avere un figlio “matto”.

Lo abbraccio forte per fargli capire quanto il suo gesto di venire ad accomiatarmi sia stato prezioso per me. Questo dialogo tra cuori, al di là dei formalismi del linguaggio e al riparo dalle trappole del pensiero, segna la prima tappa del viaggio, il mio yatra verso il luogo dove l’essere umano non è ancora completamente posseduto da quello che gli indiani algonchini chiamano wetiko, la pandemia psico-spirituale che ha ammalorato il mondo.

A dispetto del mio paziente lavoro di preparazione dei documenti, delle autocertificazioni e delle giustificazioni, nessuno ci chiede nulla.

La polizia, che bivacca in borghese attorno a un tavolino all’ingresso, nemmeno ci degna d’uno sguardo. L’aeroporto è deserto, spettrale, ma i pochi viaggiatori appaiono rilassati. Niente file, niente corse. I controlli avvengono nella massima tranquillità e senza la solita furia. Lentamente, l'aeroporto ci digerisce e la pacifica peristalsi dei suoi tortuosi corridoi degrada e assorbe l'inquietudine.

 

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Sul primo aereo Simona, la mia compagna di viaggio, e io, abbiamo posti separati. Quindi, quando tutti sono seduti, decide di cambiare posto. "Aspetta, chiediamo all’assistente di volo", le dico. Mi guarda con un velo di compatimento, pensando che avessi bisogno di un’autorizzazione e che mancassi di risolutezza.

Lei non mi conosce ancora, io tendo a essere ribelle e a fare senza chiedere, ma questa volta ho avvertito l'impulso di rivolgermi a quella hostess come se fosse la cosa più naturale del mondo, una nota già scritta nella divina partitura di questo viaggio nel viaggio.

"Claro que sì! Ustedes estàn enamorados?" (Ma certamente! Siete fidanzati?) mi risponde l’assistente di volo, una bella signora sorridente dal castigliano morbido e venato d’un leggero accento dell’Europa dell’Est: "Qué lindo es el amor en estos tiempos en los que todos se odian. Siéntese aquî!" (Che bello essere innamorati in un momento in cui tutti si odiano Sedetevi qui!) continua indicando due posti vicini in una fila più larga, con spazio per le gambe, proprio quei posti che il giorno prima avevo evitato di aggiudicarmi in fase di check-in perché mi sarebbero costati venticinque euro in più.

A Madrid ci accoglie il ventre cavo del terminal, vuoto, silenzioso.

Una bella struttura in legno che ricorda lo scheletro di un rettile copre l’hangar, e questo ci pare presagire l'architettura della maloca, la tipica costruzione amazzonica dove si tengono le cerimonie di medicina.

Una navetta senza conducente ci trasporta da un non luogo a un altro.

Avvicinandoci al gate dobbiamo esibire l’esito del tampone e la declaraciòn jurada richiesta dal governo peruviano per entrare nel Paese. Ci chiamano uno per uno, ma fatico a comprendere il mio nome pronunciato alla spagnola. Ci avvertono che dobbiamo indossare la pantalla, lo scudo facciale in plastica che tanto sudore causerà in seguito.

Pochissimi i passeggeri, un evento mai visto prima nella mia intera vita! E così ognuno di noi può occupare i quattro sedili centrali e dormire per quelle altrimenti interminabili tredici ore di volo. Niente dolore alle gambe, niente stanchezza, niente jet lag. Una combinazione fortunata.

Comincio a rendermi conto che questo viaggio si svolge sotto una buona stella, come benedetto da quegli spiriti che, da lì a qualche giorno, avrei incontrato nella foresta.

 

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16 aprile - Dieteros

A Lima, attendendo il bagaglio, vengo avvicinato da un poliziotto con un cane. Da sotto lo scafandro anti-Covid, l’agente mi sorride: "No se preocupe. Eso es un perro anti-fruta. Usted tiene fruta?".

Apro lo zainetto, estraggo una mela che contavo di tenere per il volo successivo e la consegno, manco fosse quella avvelenata di Biancaneve!

In poco meno di un’ora cambio i soldi, eseguo, per evitare l'aislamiento, un ulteriore tampone in un’installazione sanitaria appena fuori dall’ aeroporto circondata da militari in assetto antisommossa e acquisto la sim card peruviana.

Ma, naturalmente, perdo la coincidenza per Pucalipa. Ma anche questo problema sembra sciogliersi come neve al sole: non solo mi cambiano il volo senza penali, ma mi mettono accanto a Simona che, più previdente di me, aveva prenotato quello successivo.

Dall’oblò dell’aereo vediamo allontanarsi sotto di noi la Cordigliera delle Ande quando entriamo in una massa di nuvole che pare infinita: è il respiro della foresta che prende forma.

Come effetto dei protocolli anti-Covid, ai quali il Perù sembra attenersi rigidamente, davanti all'aeroporto di Pucallpa non c’è la solita ridda di tassisti in motocarro che normalmente assale i viaggiatori offrendo i propri servizi. I mezzi devono sostare fuori dal perimetro dell’aeroporto. Ed è lì che attendiamo Foster, il tuttofare di Simona.

Una città, Pucallpa, fatta di case basse, come una favela di lusso, piena di giardini, ricoperta di variopinti murales dai quali ammiccano colibrì, serpenti e sciamani. Quarantacinque minuti di viaggio, finalmente senza mascherina né schermo, anche se proprio lì, per la polvere, sarebbe stata più utile, su strade di terra battuta, dissestate e dilavate dall’acqua che, in questa stagione, ricopre completamente il suolo della foresta.

A casa, ad accoglierci, ci sono Edward, il marito di Simona, Mario e Stellina, i loro gatti, e un piccolo gruppo di donne shipibo loro amiche, venute ad accoglierci.

Per pranzo, Edward ha cucinato per noi una zuppa di pesce pescato il mattino stesso, una lieta variazione all’eterno bocadillo che ha funestato la nostra altrimenti perfetta crociera.

Simona ed Edward abitano in una deliziosa, tipica casetta della campagna amazzonica, un semplice edificio di legno che, in Europa, non potrebbe resistere alle intemperie per più di un paio di mesi. Circondata da un lussureggiante giardino di piante locali, la casetta ha pareti sottili, quasi inesistenti.

Effimeri muri capaci di proteggere solo dalle zanzare permettono all’aria e alla luce di inondare a loro piacimento l'interno. Mentre mangiamo, intorno alla casa vedo dei colibrì multicolori svolazzare frenetici tra le piante mentre i due gatti si strusciano affettuosamente contro le nostre gambe.

 

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La calura comincia a farsi sentire e, quando il sole fa capolino tra le nuvole, la temperatura si innalza vertiginosamente. In pochi secondi sono completamente sudato, una sensazione che non provavo da molti mesi. Il calore non sembra voler mollare la presa sul mio corpo nonostante la doccia, rigorosamente fredda.

Penso alla visione che George Ohsawa aveva della malattia: i raffreddori, che in quasi tutte le lingue del mondo sono chiamati “freddo” non sono altro che l'eccesso di freddo accumulato con l’alimentazione durante l'estate e che, conoscendo bene il proprio corpo e come si comporta l’ambiente, si potrebbe evitare, per esempio introducendo alimenti riscaldanti come cereali e zucca cotti già a partire da Ferragosto: tutti i gelati, la frutta, l’alcol, i cibi crudi o ghiacciati consumati durante la stagione calda per rinfrescarsi si accumulano e, ai primi freddi, questo eccesso di freddo, di yin, per usare la terminologia taoista usata dalla macrobiotica di Ohsawa, esce dal corpo sotto forma di muco, lacrime e secrezioni, infiammando le mucose.

Allo stesso modo, i problemi respiratori e la febbre della fine dell’inverno e del principio della primavera non sono altro che l'eccessivo calore, lo yang, accumulato durante la stagione fredda per il consumo maldestro di cibi pesanti, troppo caldi, e per l’uso improprio di coperte, maglioni e riscaldamento domestico: ai primi caldi, e per me lo si è visto quando sono partito da Milano dove c'erano appena dieci gradi, tutto questo calore sfiata sotto forma di muco indurito, febbre, dolori articolari, sonnolenza e vampate.

Nel pomeriggio, mentre fumo finalmente un mapacho, la tipica sigaretta di Nicotiana rustica, il tabacco selvatico che è anche una potente pianta maestra della tradizione sciamanica locale, tento di recuperare il risultato del tampone eseguito al mattino all’aeroporto di Lima. Ma il sito non vuole riconoscere le mie credenziali d'accesso.

Così telefono e, dopo almeno una mezz'ora di musichetta e menu vocali in castigliano, riesco a parlare con un’impiegata che mi aiuta a risolvere il problema. Finalmente libero dallo spettro della quarantena, ora posso pensare a come raggiungere tranquillamente Iquitos dove avevo programmato di trascorrere qualche giorno di vacanza da Fabrizio, l’amico di un amico che vive da anni nella foresta di Loreto, prima d’iniziare il lavoro con le piante a Pucallpa.

Mi avevano parlato di un barco ràpido che avrebbe dovuto collegare Pucallpa e Iquitos, attraverso il fiume Ucayali, impiegando solo dodici ore. Ma temo che si trattasse di una leggenda urbana: un barco c’è, anzi due. Uno ci mette tre giorni o più, mentre un collegamento commerciale impiegherebbe ventotto ore. Sono troppo stanco del viaggio per passare un'intera giornata su un altro mezzo di trasporto.

 

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Sicché mi collego al sito della Latam, una compagnia aerea cilena molto attiva qui in Perù, per un volo che normalmente dovrebbe collegare le due città in circa quaranta minuti. Ma, complice la Covid e il weekend, l’unico volo disponibile è una combinazione con scalo a Lima, quindi altre cinque e più ore imbavagliato nello schermo facciale e nella mascherina. Comunque, ho fretta.

E la fretta ha un prezzo. Ci metto almeno un’ora e mezza per comprare il biglietto online, un po’ perché il sito è farraginoso, un po’ perché la connessione è ballerina: alla fine non sono neanche sicuro di averlo davvero comprato! Per fortuna, dopo un’ora mi arriva una mail con la prenotazione e l’intimazione a procedere con il check-in online che, naturalmente, non riesco a portare a termine!

Poco male, i peruviani sono mediamente gentili e disponibili, me la vedrò domattina all'aeroporto. Risolte le incognite legate ai trasporti, ora devo trovare un posto dove trascorrere la notte: Simona ed Edward non hanno un letto per gli ospiti.

Così mi trasferisco da Jessica, una signora che, una volta, gestiva un famoso albergo specializzato per i dieteros. Il dietero è colui che, nell’ambito del sapere tradizionale della medicina amazzonica, dieta una pianta: chi, cioè, affronta un periodo di isolamento e di restrizioni alimentari e assume ogni giorno una determinata pianta, perlopiù sotto forma di decotto o di infusione, secondo determinate regole e posologie.

Con il sopravvenire della Covid e la conseguente assenza di gringos, Jessica aveva perso il lavoro.

Con il marito Rolando ha costruito un paio di tambos nei quali ora può alloggiare i pochi stranieri che ancora si avventurano fino a qui, nella cittadina di Yarinacocha, vicino a Pucallpa. Jessica mi mostra il suo meraviglioso giardino nel quale già riconosco qualche pianta maestra: in mezzo ai fiori, le papaye e le guavas, ci sono l’albahaca, il piño colorado, il palillo, cioè la curcuma, e la bobinsana con i suoi caratteristici fiori a ciuffetto che paiono dei pennacchi bianchi e viola.

Sono molto stanco e non chiedo nemmeno da mangiare. Mi lavo con l’acqua gelida e finalmente, rigenerato e soddisfatto, mi distendo sul letto quando Jessica bussa alla porta. Le apro, vestendomi alla bell’e meglio, e mi presenta un vassoio con cibo e succo di maracujd del suo orto: "Es comida por dieteros, no hay chancho, ni aziicar, ni sal". (È cibo per dieteros, non c'è maiale né zucchero né sale.)

Non me la sento di dirle che non mangio carne dopo che ha cucinato con amore uno dei suoi polli apposta per me; in effetti, questo suo pollo ha la carne soda e ferma come solo i polli ruspanti hanno, ed è delizioso così come il riso e le verdurine che l’accompagnano. Sazio e riconoscente mi appoggio al cuscino e, nonostante la musica altissima, caratteristica del weekend nei villaggi del Sud America, sprofondo beatamente nel sonno.

 

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Data di Pubblicazione: 27 maggio 2022

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