Scopri il capolavoro indiano strategico-politico-militare, sconosciuto in Occidente, infallibile in pace e in guerra, leggendo il libro di Gianluca Magi.
Lo yoga segreto del perfetto sovrano
India, culla del più intransigente materialismo utilitario e realismo politico
"L'uomo prudente, preferendo l'azione disonorevole e accantonando la moralità, cerchi il proprio vantaggio, poiché lasciarselo sfuggire è indice di stupidità."
Ghatakarpara Nitisara
"L'intera scienza politica si racchiude in due concetti: elevazione propria e rovina altrui."
Sisupalavadha II, 30
L’opera letteraria che qui presentiamo per la prima volta in lingua italiana direttamente dall'originale sanscrito è un prisma di saggezza indiana applicata all'arte del successo, rimasta celata dietro il velo di Maya sino a un pugno di decenni fa.
Il suo titolo in sanscrito è "Arthasastra, Il Codice del Potere", del politologo indiano Kautilya, contemporaneo di Aristotele.
Ai tempi del confronto strategico tra Stati Uniti e Unione Sovietica qualcuno disse che Machiavelli e Metternich non sarebbero serviti a Henry Kissinger, se l’inossidabile decano del ministero degli Esteri sovietico Andrej Gromyko avesse letto "Il Codice del Potere".
Max Weber e il primo ministro indiano Jawaharlal Nehru, per i quali "Il Principe" di Machiavelli è inoffensivo a confronto con questo gioiello di razionalità pura, sarebbero stati certamente d'accordo.
Il lettore che vagheggia un’India astratta dalla vita vissuta, oziosamente risucchiata nell'esotica contemplazione di vette mistiche e pratiche rinunciatarie per la salute spirituale è messo in guardia: il libro tra le mani si rivelerà una scandalosa sorpresa. L'affermazione del potere torreggia dalla prima all'ultima pagina, come bellicosamente si proclama sin dal titolo.
Da quando, nel ’500, i predaci portoghesi cominciarono ad artigliare le coste asiatiche, l'immaginazione europea rimase abbacinata dalla metafisica hindù, come se il volto del popolo indiano unicamente si risolvesse nei tratti del mistico, asceta e sognatore, che non pensa ad altro che al cielo, alle preghiere e alle discipline meditative.
Che ingannevole sdoganamento delle multiformi fascinazioni del pensiero indiano!
La realtà vuole che mentre nel Mediterraneo del IV sec. a.C. la "Repubblica" e le "Leggi" di Platone, la "Politica" di Aristotele edificavano il monumento politico dei Greci, sulle rive del Gange una sorta di Bismarck ante litteram registrava in passi memorabili il suo glaciale monumento di realismo politico; che non sembri un'imprecisione o un'iperbole il definirlo di una spietatezza perfetta.
Nonostante ciò, mentre il pionierismo greco nella filosofia politica è universalmente riconosciuto, il contributo asiatico, e in special modo quello hindu, rimane in pratica misconosciuto, se non del tutto ignorato.
Pur suonando inatteso e inconsueto, i maestri indiani dell’arte politica, così essenziale per questa cultura, sono ineguagliabilmente più indifferenti alla morale dei nostri e animati da pragmatico cinismo d'antichissima data, privo d'ogni scrupolo, di una durezza che non teme rivali nella storia mondiale delle teorie politiche.
La miopia (o presunzione?) eurocentrica, rappresentando semplicisticamente l’Indiano come il contemplativo appacificato, non ha riconosciuto che l’uomo è stato fondamentalmente lo stesso "animale politico" di Aristotele sia in Occidente che in Oriente. Se gli Indiani furono grandi nella rinuncia, altrettanto grandi furono nell’affermazione della vita.
L'India non ha mai ignorato che l’uomo sociale è diverso dall'uomo che medita nella solitudine delle selve o nella quiete degli eremi, che norma suprema dell’uomo d'azione è il freddo calcolo d'interessi, che il solido fondamento del diritto è la forza, che la sfacciata caccia al proprio tornaconto decifra il fulmineo e impensabile voltafaccia degli amici e la non meno istantanea, sbalorditiva riconciliazione coi nemici.
In ossequio alla legge fisica che impone al pendolo alzatosi a un'altezza a destra di oscillare alla medesima altezza a sinistra, l'India ha dato i natali ai santi del più estremo idealismo e disinteresse verso il mondo così come ai politici del più sfrenato realismo e utilitarismo.
Il pensiero indiano è sempre stato conscio che per rendere vitale un corpo umano non necessitano solo cervello e cuore ma anche fegato e bile, che non bastano le divine meditazioni e la compassione estatica dei santi ma anche l'egoismo dei martiri delle ambizioni, dei prepotenti illusi della inarrestabile ruota della vita, degli schiavi dei sensi.
L'esistenza è uno strano impasto di delitto e santità. Non v'è l'uno senza l'altra.
Se in Europa la tendenza a scrivere opere realistiche sulla politica e sulla guerra riuscì a dribblare l'etichetta della cavalleria (che non consentiva l'inganno sui campi della tenzone, dell'onore e della morale) solo agli esordi del XVI secolo con le opere di Machiavelli e Guicciardini, in India già nel IV secolo a.C. culminò con "Il Codice del Potere", un trattato disposto a esaminare in modo esplicito e disincantato il problema della forza e dello stratagemma in politica, in diplomazia e in guerra e capace di comprendere ed esplorare le tecniche psicologiche della manipolazione che implica l'inganno.
"Il Codice del Potere" considera in termini spregiudicatissimi la sintassi di una "Machtpolitik" da proporre come modello di governo per i regni hindu del periodo successivo all’epoca indo-greca, e mette in rilievo, nel modo più esplicito e schietto, gli influssi reciproci molto profondi tra guerra, politica ed economia, applicando alla teoria militare la prassi allora consueta dell’astuzia politica intimamente connessa con la condizione psicologica dell'individuo e della società.
Oggi che l’urbe s'è fatto urbe è un imperativo categorico correggere il visus della miopia eurocentrica che ha fatto sparire sotto il tappeto le sconce verità della sapienza pratica e strategica dell'India relegandole nelle appartate stanze di un pugno di indologi.
La geopolitica mondiale pretende la conoscenza del pensiero politico nato al di là dei confini occidentali, esige una visione prospettica più ampia di questa straordinaria geografia del pensiero.
Ricordato in alcune opere posteriori sino alla conquista turca del XIII secolo, su "Il Codice del Potere" calò una lunga eclissi. E considerato perduto per sempre, se ne trascurò l'esistenza, quasi a ignorarlo. Forse la sua stessa indole riservata, la segretezza della materia contenuta, la temerarietà delle sue concezioni e dei metodi della sua dottrina politica furono le cause che ne sbarrarono la divulgazione.
Ma nel 1909, da un oscuro scaffale della Government Oriental Library di Mysore (Maistr), il direttore R. Shamasastry esumò un esemplare su foglia di palma che diede alle stampe, per poi, nel 1915, offrirne una pionieristica curatela in lingua inglese.
Gli indologi che fino a quel momento non avevano presentito, neppure grazie al buon senso, che un'immensa civiltà plurimillenaria potesse essersi disinteressata delle ambizioni terrene e degli umani vantaggi, rimasero sgomenti davanti a questa uscita dal nascondiglio: una vera e propria rivelazione paragonabile alla vertigine che coglierebbe innanzi all’ipotetico ritorno alla luce del Principe e dei Discorsi del Machiavelli dopo un'ignota sepoltura di innumerevoli secoli.
Presero avvio appassionate indagini alla ricerca di dati e notizie, nuove traduzioni per specialisti, che aprirono inaspettati orizzonti. Accanto all'India mistica se ne andò a collocare un'altra: pratica e spregiudicata. Ma da allora quest’ultima India rimase segregata nello specialismo accademico.
L'attuale inarrestabile circolazione delle idee ha voluto che negli ultimissimi anni questa pietra miliare della storia del pensiero umano aprisse una breccia in tale angusta clausura per godere in India di un incredibile revival.
Il machiavellismo del "Codice del Potere", il suo approccio pratico alla vita che individua e formula con la fredda precisione di una specie d’algebra politico-economica certe basilari leggi naturali che governano da sempre il comportamento umano e i rapporti tra le persone, che regolano i rapporti internazionali di qualunque Paese, ha cominciato a esercitare una potente suggestione sui nuovi manager indiani, politici, amministratori, strateghi militari, del business e dell’informazione, che hanno eletto questo trattato a fonte essenziale di consultazione e guida indispensabile per chiunque si occupi di relazioni umane e debba prendere decisioni: dal governare un intero Paese al dirigere un'impresa, dagli affari sociali e politici alle relazioni personali, dal mantenere unita la propria famiglia al self-control di fronte alle avversità.
Dunque, non più un testo ad usum delphini per politici partigiani, ma un libro per lettori liberi, disposti a confrontarsi da soli con le sue segrete verità.
Segrete verità svelate
Nei principi di questo trattato, sui quali il sovrano Candragupta unificò il primo impero indiano e signoreggiò sulla tabula rasa degli antagonisti, c'è chi vi intravede, in filigrana, quelle linee guida che come fiumi carsici stanno conducendo all'idea di "Grande India" (Visala Bharata), un nuovo pan-indianismo che, emergendo dalle ombre della Storia, farà irruzione nel mondo globalizzato per giocare un ruolo chiave nello scacchiere politico internazionale.
Mentre ancor oggi in Occidente questo trattato continua a essere perlopiù sconosciuto (negli stessi Stati Uniti non è possibile acquistare la traduzione inglese attraverso la regolare distribuzione editoriale), le librerie indiane pullulano oltre che di versioni in hindi e in altre lingue indiane, anche di adattamenti ai più svariati know-how, di bigini a uso di manager rampanti fierissimi di poter attingere a piene mani "le intuizioni di una tale straordinaria resistente validità da solcare indenni l'oceano di ventiquattro secoli" — a detta di Pratip Kar (direttore esecutivo del Securities and Exchange Board of India dal 1992 al 2006) — di quel loro antico conterraneo che non temono di definire "il più grande politico che abbia mai camminato su questa Terra", "il più antico stratega del business e della vita sociale" che sollevò problemi di attualissima importanza nello scenario internazionale ed elaborò teorie oggi sorprendentemente più che mai vive e inattesa di essere studiate e applicate nel XXI secolo.
Nel 2002 un cenacolo di economisti, sociologi e banchieri indiani, riunitisi sotto l'egida dello Swadeshi Research Institute di Calcutta, per discutere "La rilevanza delle idee economiche di Kautilya nel nuovo millennio", ha convenuto che " "Il Codice del Potere", per il suo modello economico alternativo per il Paese, merita la più grande attenzione".
Kautilya è oggi stimato eminente eroe patriottico, tanto da meritarsi gli onori popolari e rivestire il ruolo di protagonista di fumetti, in cui se ne celebrano gli abili intrighi per unificare l'India e sgominare l’invasore greco, è di un serial televisivo in otto puntate, mandato in onda su Doordarshan, la televisione di Stato indiana, che, a gran richiesta, continua a essere puntualmente ritrasmesso.
Pur senza unirci all’enfatica glorificazione e cadere negli elogia o nei panegirici, diremo soltanto che da quando, nell'ultimo scorcio del IV secolo a.C., Kautilya scrisse quest'opera, che scopre la genesi e le regole del gioco del potere, le interpretazioni del comportamento umano sono aumentate sotto l'influsso dell'evoluzione della psicologia e dell’esumazione di culture e civiltà insospettate; malgrado ciò, questa lungimirante rivelazione di un uomo di genio, che racchiude il segreto rigore degli scacchi, gioco eminentemente indiano, resta, svestita di ciò che le è contingente, incolume e mantiene oggi la sua intrinseca attualità; ed è verosimile congetturare che continuerà a risuonare nelle concavità dello spazio e del tempo, senza essere toccata dalle vicissitudini future.
Perché le passioni e gli interessi congeniti alla natura umana mutano d'intensità, ma la sostanza da cui discendono permane la medesima, replicandosi, con la costanza di una ruota che gira per inerzia, nello spazio e nel tempo.
L'avvento del padrone dell'India
"Il principio primo di saggezza sociale è: mai fidarsi!"
Mahabharata XII, 80, 12
Per addentrarsi nel fosco corridoio indiano d’iniziazione al potere si dimentichino gli scenari odorosi di fiori di loto popolati d'anime belle. E si cominci a respirare un'aria plumbea, venefica, tessuta di guerra di nervi, a palpare a ogni cantone l’insidia di prezzolati sicari in grado di varcare anche le serrature, ad avvertire il sospetto formicolare di spie abilmente camuffate che impediscono di dormire nello stesso letto per due notti di fila, a nutrirsi della continua minaccia di cospirazioni, d’intrighi, di tradimenti, di ciò che appare limpido ma, in realtà, oscuro, celato nell'ombra.
Sin dal VI e V secolo a.C., periodo immediatamente precedente a quello del "Codice del Potere", tale è l'atmosfera che grava sulla corte del sovrano, il palcoscenico sul quale si snodano le tecniche di governo integralmente utilitarie, la doppiezza del realismo politico nel senso più crudo della parola, l’arte della guerra, la disciplina sociale, i mezzi e le modalità d'azione, i metodi di coercizione e di repressione necessari alla nuova concezione indiana del potere.
L'antico ideale indiano del "divino imperatore del mondo", la cui corona rifletteva il mandato divino e il beneplacito dei sacerdoti, tramontava, scalzato dagli strumenti del militarismo dispotico, grossolanamente parodiato dalla burocrazia amministrativa centralizzata delle terre conquistate.
Lo Stato era l’espressione manifesta della forza personale del sovrano assiso sul trono che, in virtù di audacia, astuzia e ingannevoli trame, faceva marciare l’intricata macchina del potere.
Le sgretolate strutture politiche del periodo feudale ario si spalancarono all’epoca buia del disordine e al fragore delle armi, a turbinose lotte tra bande mercenarie capitanate da soldati di ventura di casta inferiore desiderosi di rovesciare antiche casate per fondarne di proprie, a famiglie principesche di fantocci incoronati timorose che lo stesso cancelliere potesse impadronirsi del trono, a confinanti regni rivaleggianti in perpetuo pericolo di disintegrazione o d’invasione.
Situazione questa che ricorda la fase declinante del Medioevo italiano e tedesco del XV secolo, ove in un esuberante e astioso caos, città libere e piccoli principati guerreggiavano, chi per la sopravvivenza chi per la supremazia, il cui destino, in gran parte, fu di essere fagocitati e soggiogati dai più grandi Stati nascenti, governati da monarchi assoluti.
In India, questa fase d’unificazione forzata sembrò praticamente completata, almeno nella parte settentrionale del subcontinente, sotto la potente dinastia Nanda, la cui vita, nonostante il livello infimo dei regnanti, si sarebbe protratta per circa un centinaio di anni, dal 425 al 323 a.C., prima di essere travolta dal rigore algebrico del redattore del "Codice del Potere".
Data di Pubblicazione: 24 giugno 2022